The Others – The Others

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Il disco dei The Others, la nuova new sensation proveniente dagli uk è una merda. (e ollè, che inizio pulp –non il gruppo… ah ah ah-).
Amici di vecchia data dei Libertines era tanto ovvio quanto scontato che prima o poi anche loro arrivaserro a un debutto discografico, e a una fama sulla quala è lecito spendere più di un interrogativo. Tolto il personaggio del cantante, la storia della band, i guerrilla gig nelle metropolitane e negli ascensori, il turbolento seguito di fan e curiosit, tolto insomma tutto quel che di solito fa versare un po’ più di inchiostro ai giornali cosa resta… la musica, è ovvio,ma che musica resta!
I The Others sono l’apoteosi della banalità. Prendete dei ragazzi qualunque e fateli stare un paio d’anni con i Libertines (avrete dei futuri debosciati,lo so,e non nego che i the others lo siano), ascoltando un po’ di dischi tra la new, wave e il punk, e ovviamente la solita dose di “inglesità allo stato pure” di Smiths e Oasis. Dopodichè in saletta con degli strumenti raccattati al volo e via, pronta la new sensation del momento. Incapace di suonare,prima d’idea ma con molto buon gusto nello scopiazzare e altrettanto nell’agganciarsi alla moda del momento. Non per niente Dominc master vanta una storia di droga degna di Pete Doherty (e un “bravo co**ne” ci sta tutto).
Ma torniamo al disco, elementi cardine un drumming sempre tirato, di quelli che ti fa pogare tutto il concerto e alla fine ti fa accorgere che tutto il live di “sto gran gruppo” è durato neanche 40 minuti e torni a casa incazzato, una chitarra con un suono osceno. Apprezzo le chitarre calde di Up the bracket, che sembrano tutte 335 cariche di overdrive, ma qui c’è un suono tagliente con una distorsione acida degna dei primi anni 80, ed è veramente inascoltabile, i toni bassi non ci sono per niente e gli alti squillano troppo (Southern Glow). Il basso sembra quello che più si impegna per la melodia, perché lì dove la chitarra fa poco e niente e la batteria non ha il ruolo di essere originale qualcuno ci dovrà pur mettere del proprio per riuscire a sollevare un minimo la qualità del lavoro, ed ecco quindi un bel suono tondo e netto, stile primi cure a fare riff (In the background, Johan) lì dove la chitarra sembra saper fare solo quinte o arpeggi degni della Lesson number one di How to play guitars in 24h o Guitar for dummies (How i nearly lost you). Aggiungiamo un cantante né carne né pesce, con forse un po’ di carisma (io non ce lo vedo) ma trascinatore ed è ovvio che alla fine gli aggettivi per identificare quest’album siano piatto, banale, inutile e prevedibile. Col rischio in cui spesso si cade che i brani alla fine si assomigliano un po’ tutti, soprattutto quando non si va “giù di distorsioni” (Johan e Almanac) E la tanto strombazzata This is for the poor? Un mezzo scopiazzato di ciò che i Manics street preachers facevano con più senso e più capacità già negli anni 90, più fortuna avrà sicuramente il nuovo singolo, Stan Bowles, motivetto piacevole che però deve pagare i diritti ai The Strokes, The killers, e altri 10 The Questoequellaltro.
La cosa che più urta è che per sponsorizzare ‘sti 4 incapaci vengono dimenticati e ignorati altri gruppi che magari hanno della personalità, delle capacità e, cosa non da poco, magari sanno anche suonare.