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Quando l’amico Samuele Boschelli mi ha parlato della possibilità di iniziare a collaborare con Rocklab, mi sono subito domandato quale sarebbe stato, in ipotesi, il disco che avrei voluto recensire per primo.
Trattandosi della mia recensione numero 0, mi è venuto naturale pensare che avrei dovuto iniziare da un disco basilare, sia per la mia personale formazione musicale, sia, naturalmente, per il genere di cui sarei stato eventualmente chiamato ad occuparmi all’interno di Rocklab.
Ebbene, mi ci sono voluti circa dieci secondi per visualizzarlo.
Si tratta di ‘Made in Japan’ dei Deep Purple. Il perché è fin troppo ovvio.
Questo è forse il disco rock più famoso della storia oramai ultracinquantennale del genere, di cui, senza ombra di dubbio alcuno, costituisce uno dei pilastri fondamentali.
Ma non solo. L’opera in questione è, prima di tutto, il manifesto di un’epoca, e di un modo di concepire la musica, in particolare quella dal vivo, che, purtroppo, non esiste quasi più.
Sì, perché quando i Purple salivano sul palco niente era scontato o banale. Le loro esibizioni live, così come quelle di molti altri grandi gruppi degli anni ’70, erano completamente lasciate all’estro dei musicisti, alla loro voglia di improvvisare, di continuare a “creare”, anche sul palco.
La leggenda di questo disco è tutta qui, in ciò che è inaspettato, imprevedibile e “straordinario”, nel significato letterale del termine.
La leggenda di questo disco é negli impareggiabili duelli chitarra/voce di “Strange kind of woman”, e nella coda di “Smoke on the water” (conoscete una qualsiasi cover band del gruppo che non la riproponga in questa versione?), è nel lunghissimo assolo di batteria contenuto in “The Mule”, nella pazzesca introduzione di organo distorto di “Lazy”, negli estemporanei assoli di chitarra di Ritchie Blackmore, sempre incredibilmente in bilico tra ricercate melodie barocche e minimali fraseggi blues, nella urla di un indiavolato Ian Gillan.
Credo che potrei continuare all’infinito, ma mi fermo qui. Inutile dilungarsi nel raccontarvi di ciò che sicuramente già conoscete tutti a memoria.
Questa recensione, infatti, non intende essere una sorta di “guida all’acquisto”, dal momento che sono fermamente convinto del fatto che tutti voi che, come me, oramai avete superato i trenta, custodite gelosamente una copia di cotanta opera all’interno delle vostre collezioni (non potrebbe essere altrimenti!)
Questa recensione vuole essere semplicemente un piccolo ma assolutamente doveroso omaggio da parte di un semplice appassionato, ad un’opera grandissima, posta quale pietra angolare alla base di quel meraviglioso edificio chiamato rock’n’roll.
Ai più giovani, che fossero tentati di snobbare un disco del genere, voglio solo ricordare che anche il castello più imponente, senza solide fondamenta, è destinato a crollare miseramente.
A buon intenditor…