The Cure – Disintegration

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Non esiste un album che renda onore al proprio titolo al pari di “Disintegration” dei Cure. Uno degli album più Dark e malinconici che possiate mai ascoltare, capace evocare quella sensazione di annientamento “totale” seconda solo al capolavoro Pornography.

Robert Smith e soci nel 1989 hanno tirato fuori nuovamente un capolavoro riuscendo, questa volta, ad essere ricompensati anche in termini di vendite: l’album ha rappresentato il loro boom commerciale, grazie ai singoli di successo “Lullaby” – e il suo fantastico video – e “Lovesong”.

Per quanto risulti inconsueto il successo ricevuto grazie ad un “mattone” di 71 minuti caratterizzato da un sound prevalentemente triste e inquietante, troviamo nella sua melodrammaticità, probabilmente, la chiave vincente (commercialmente parlando) rispetto al più crudo Pornography. In copertina, il volto spettrale di Robert Smith spicca in mezzo ai fiori nel buio, all’interno dodici tracce ammalianti e cariche di emozioni da cui è assai difficile non farsi influenzare: lontananza, amori perduti, nostalgia e addii sono i principali temi affrontati nell’album, sentimenti tristi che vengono perfettamente tradotti da musica e testi.

Le prime due canzoni, “Plainsong” e “Pictures of you” sono pezzi lenti, introduzioni malinconiche al nero pesto che seguirà. Penso a “Lovesong”, singolo abbastanza celebre giocato sulle tastiere e sulla voce di Smith, caratterizzato da un’immediatezza capace di gettare l’ascoltatore all’interno della dichiarazione d’amore più malinconica della storia. “Lullaby” è altrettanto tetra, una nenia cupa e angosciante più sussurrata che cantata, lenta, giocata sulle dissonanze.

Quest’atmosfera opprimente prosegue praticamente per tutto il resto dell’album, raggiungendo altri due apici: “Prayers for Rain” e la tristissima “Homesick”, due pezzi nella struttura molto simili, entrambi con un’ampia introduzione strumentale e la voce di Robert Smith che qui “dialoga” con un ipotetico interlocutore. Degne di menzione anche le ottime “The same deep water as you”, altro pezzo nostalgico, la title-track “Disintegration”, il pezzo più ritmato e coinvolgente dell’album, e l’ampia e suggestiva conclusione “Untitled”– il pezzo sicuramente più “luminoso” e speranzoso dell’opera, quasi a volerci dire che alla fine del tunnel c’è speranza.

Si tratta di un album molto particolare, forse un po’ prolisso, ma caratterizzato da quelle atmosfere ossessive marchio di fabbrica della band. L’ascolto di “Disintegration” è comunque doveroso, uno dei migliori lavori prodotti a fine ottanta.