Opeth – Damnation

Ok, eccomi qua davanti alla tastiera. So già che sarà un’impresa dura stavolta, ma è il caso di provarci almeno. “Damnation” è duro da recensire: si tratta di cercare di mettere le emozioni in parola, un poeta sarebbe probabilmente più adatto di questo pseudorecensore che sta scrivendo, ma ormai ho iniziato, e non son solito lasciare le imprese a metà.
Quest’album l’ho atteso da mesi. Quando inizialmente, era giugno o forse luglio del 2002, sfogliando fra le varie webzine trovai quella news “gli Opeth stanno preparando due album”. Non uno, ben due, uno dei miei gruppi preferiti che mi fa un regalo simile, incredibile!
Il nero “Deliverance” spero già lo conosciate, anche se non ho ancora visto una recensione qua in sede Rocklab: un capolavoro, ovviamente. Ma “Damnation” era già preannunciato da tempo come qualcosa di diverso, e l’uscita del primo “fratello” altro non fece se non stimolare la mia curiosità, la voglia di sentire questo nuovo lavoro.
E finalmente eccolo qui, nel mio stereo.
Sublime, anni luce al di là delle mie aspettative.
Sarà stato il tocco di Steve Wilson che già ci ha deliziato coi Porcupine Tree. Ma non è un album degli Opeth che s’ispirano ai Porcupine riprendendone i leit-motiv: sono due dei più grandi artisti nella scena musicale odierna che si prendono per mano, dando alla luce qualcosa di assolutamente delizioso.
“Deliverance” nero e “Damnation” bianco. Una scelta ossimorica originale, forse per legare ancora meglio queste due perle. Perché una delle cose che contrasta più con quest’album è proprio il titolo se vogliamo: un nome che suggerirebbe fuoco e fiamme in teoria. Ma qua non ci sono più chitarre distorte né il growl di Mikael, che pure tanto ha contribuito a creare pezzi sublimi quali “Black Rose Immortal”.
Soluzioni acustiche e di incredibile atmosfera. Melanconia unita a un incredibile dolcezza. Perché tutte queste canzoni sono tristi, commoventi, ma in fondo ad esse c’è un filo di speranza, grazie alle parole stesse e alle carezzevoli melodie. Sì, “carezzevole” è proprio uno degli aggettivi che meglio potrebbero caratterizzare quest’album. Bianco e luminoso, come la purezza musicale che riesce a raggiungere.
“Windowpane”, la prima traccia, è già di per sé emblematica: forse gli Opeth vogliono farci dare un’occhiata alle nostre emozioni attraverso i vetri di questa finestra, eccezionale metafora di quest’album. E Travis Smith, abile come al suo solito, in copertina ci mette proprio una luminosa finestra. Geniale, ogni volta di più.
“In my time of need”, forse il momento più introspettivo dell’album, il più triste. Ma anche qui non si è mai abbandonati dalla speranza, che potrebbe benissimo essere il fading finale della canzone stessa.
“Death whispered a lullaby”, intonata dalla Morte stessa, che in mezzo al cupo ambiente delineato nei pochi versi riesce paradossalmente ad essere l’unico raggio di luce con la sua nenia invitante al sonno, terribilmente decadente e romantica allo stesso tempo.
“Closure” coi suoi richiami orientaleggianti ci trasporta lontani, in un vero e proprio idillio, ma all’improvviso ci troviamo in “Hope Leaves”, senza quasi accorgercene, perché fra le due canzoni non vi sono brusche interruzioni. “Hope Leaves”, eccezionalmente nostalgica, toccante ricordo di qualcuno che ormai si è perso per sempre. Ma senza l’idea di disperazione, ci dà piuttosto l’idea di un pianto dolce, composto, lacrime che scendono impercettibilmente.
“To rid the Disease”, alla ricerca dell’innocenza e del candore, del bianco che caratterizza quest’album. Non l’avessero già usato con successo gli Enigma, la si sarebbe potuta benissimo chiamare “The Return to Innocence”. E subito dopo “Ending Credits”, strumentale: le parole proprio non servono, è musica che dal cuore va a suggerire le note alle mani di Peter e Mikael.
Ma non è ancora la fine: c’è ancora “Weakness”. Volutamente minimale, semplice, quasi sospirata, debole come da titolo, eppure pregna di emozioni come tutte le altre.
Da qui si svanisce nel nulla, nel senso che “Damnation” purtroppo finisce. I quarantatre minuti e diciannove secondi più brevi…
Tornare coi piedi per terra non mi è mai stato così insopportabile.
Adesso scusate, ma torno a riascoltarmelo…