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Nel 1986 debuttò un interessante progetto: “Black Tape for a Blue Girl”, il quale doveva mettere in musica le appassionate e sentimentali liriche di Sam Rosenthal, fondatore della Projekt, una delle più interessanti label underground nell’ambiente dark.
Il suono delle creazioni di Rosenthal è un dark raffinato accostabile alla new wave più eterea, un dark grigio autunnale più che nero, soavemente malinconico e gentilmente oscuro, raffinato come pochi e meravigliosamente sognante, poetico. C’è da premettere subito che la registrazione dell’album non è eccelsa e suona un po’ grezza, quasi a livello di demo: l’album a mio parere conserva ugualmente il suo fascino, ma ad alcuni potrebbe legittimamente far storcere un po’ il naso, trattandosi di sonorità che si godrebbero effettivamente meglio con un sound pulito.
Una volta lette le avvertenze possiamo passare all’ascolto: si tratta di un lavoro in cui l’elettronica svolge un ruolo fondamentale, i modelli possono essere ritrovati in gente come Cocteau Twins e, oserei dire, anche il grande David Sylvian, strizzando un po’ l’occhio anche alla new wave britannica di gruppi come gli Human League. L’artwork è semplice, una sfocata foto di un volto femminile in atteggiamento malinconico e riflessivo che ci anticipa i contenuti dell’album.
Una malinconia riflessiva e introspettiva ma allo stesso tempo delicata è appunto il tipo d’atmosfera che possiamo respirare lungo tutto l’album, un sound davvero rilassato e carezzevole creata dai synths di Sam Rosenthal, coadiuvato dalle ottime voci di Oscar Herrera e Kim Prior, che ci incantano nella prima parte dell’album, dalla prima traccia “Memory, uncaring friend”, alla quinta “End”, dilettandoci con un canto orientaleggiante in “The holy terrors” o con un intonazione simil-liturgica nella stessa “End”. “Hide in yourself” è quasi cinematografica, un potenziale sottofondo a un bel film noir
Fra “Seven days till sunrise” (in cui la chitarra di Greg Wilson sembra quasi volerci incantare col suo delicatissimo arpeggio) e “The floor was hard but home” ci troviamo di fronte a vere e proprie perle strumentali, arricchite da tocchi di classe di strumenti come violino, violoncello e clarinetto, brani dal sapore mistico-orientaleggiante richiamanti l’Arabia o l’India, come l’eccezionale title-track “The Rope”, o melodie dal sapore quasi western come “The few remaining threads”, o ancora l’atmosfera di sogno dell’evanescente “The lingering flicker”… questa seconda parte suona sicuramente come la migliore dell’intero album, senza nulla togliere alle meravigliose tracce precedenti qui il genio di Rosenthal mostra tutte le proprie potenzialità regalandoci momenti di rarissima intensità emotiva.
Chiude l’ottima, evanescente “We return”, in cui guarda caso tornano le ottime voci di Kim e Oscar, che si coniugano perfettamente al violino e ai synths di Rosenthal, in un canto dalle forti tinte folk, che svanisce in un fading, quasi a voler essere un dolce risveglio… o è il sogno che invece continua?
Questa è stata una delle recensioni più difficili che mi sia capitato di fare: Sam Rosenthal con questo progetto si propose di ideare una musica che fosse emozione pura, penso avrete capito che secondo me ci è davvero riuscito, a prescindere dalla non perfetta produzione che sembra anzi conferire il “tocco di fascino in più”, un sapore quasi retrò.
Spero almeno di essere riuscito a suscitare la vostra curiosità, “The rope” è un album che nel bene o nel male non può lasciare indifferenti.