Pop, Iggy – Skull Ring

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A due anni di distanza dall’ultimo “Beat ‘em up” è tornato il buon vecchio Iggy Pop con “Skull Ring”, album che aveva destato molto interesse per via della rinnovata collaborazione – in alcuni pezzi – col suo ex gruppo, gli Stooges, ma che francamente ha lasciato decisamente l’amaro in bocca a chi vi sta scrivendo.
L’impressione avuta è di un disco complessivamente scialbo con alcuni pezzi semplicemente indegni per un artista di questo calibro, sembra quasi che l’Iguana abbia proprio perso denti e artigli, sì è questa la definizione giusta forse: “un album incapace di mordere come vorrebbe”. Ma forse andrebbe bene anche “un’occasione perduta per tentare di riciclarsi”.
Già l’iniziale “Electric chair” è un chiaro segnale di allarme: se le chitarre si rivelano tutto sommato di buon impatto è proprio la voce di Iggy a difettare della giusta carica! Un pezzo decisamente monotono che sembra creato ad hoc per poter piacere ai “punk” moderni che probabilmente ignorano chi sia l’Iguana e cosa fossero gli show degli Stooges alla loro epoca. Trascurando una “Perverts in the sun” insignificante arriviamo già alla tracklist “Skull rings”: ritornello insignificante, chitarre monotone e una voce stanca; già a questo punto verrebbe voglia di tirar fuori l’album dallo stereo, ma resistiamo. Ecco “Superbabe” e la solfa si ripete, stavolta con vocals che ricordano vagamente i primi due album: non ci siamo proprio. Proviamo a sentire “Loser”, qua ci sono gli Stooges: niente da dire, se non che i bei tempi sono proprio andati. Ed è così per tutto l’album.
Mi permetto a questo punto di segnalare solo altri tre pezzi che possano rendere l’idea: in “Private Hell” assistiamo a un duetto coi Green Day, che non fanno altro se non modificare di poco la loro celeberrima “Hitchin’ a Ride” mettendo Iggy al posto di Billie Joe, un pezzo che ci limitiamo a definire discutibile ma che di sicuro farà solo incazzare – concedeteci il temine – i vecchi fan di un cantante che è l’ombra di sé stesso e si tira definitivamente la zappa sui piedi con “Rock Show”, duetto con la sboccata one woman band canadese Peaches, raggiungendo incredibili livelli di patetico. L’acustica e quasi country “Till wrong feels right” è l’epitaffio definitivo: un pezzo semplicemente brutto, dissonante e stonato; qua è difficile capire se ci troviamo di fronte ad un artista agonizzante o semplicemente stanco. Stucchevole.
Il resto dell’album non è certo meglio, anzi, alcuni pezzi li abbiamo volutamente omessi proprio alla luce della loro complessiva insignificanza. L’impressione purtroppo è quella di un artista ormai sulla via del declino che tenta malamente di vendersi a un pubblico più giovane cui è stato riconsegnato alla notorietà grazie alla soundtrack di “Trainspotting”, ma che anch’esso difficilmente apprezzerà i tanti stereotipi presenti in questo inutile “Skull ring”.
Raffronti col passato non è neanche il caso di farne, ci limitiamo a sconsigliarvi decisamente l’album in questione e a indirizzarvi verso capolavori come gli album degli Stooges e i due album dell’iguana solista prodotti dall’amico David Bowie, ossia “The Idiot” e “Lust for life”, dei capolavori senza tempo e ancora oggi esaltanti che con “Skull ring” non hanno nulla da spartire, per fortuna.