Hypocrisy – The Arrival

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Attendevo con ansia il ritorno degli Hypocrisy, a due anni di distanza dal controverso “Catch 22”, album che personalmente ho apprezzato parecchio grazie all’innovatività e all’estrema varietà delle sue canzoni. Dopo un attento ascolto devo dire che questo “The Arrival” conferma una certa buona vena della band capitanata da Peter Tägtgren: in quest’album i fan del combo svedese troveranno tutti gli elementi che hanno contribuito al successo della band negli ultimi anni, il solito connubio di potenza e melodie fantascientifiche unite a una produzione magistrale, quale gli Abyss Studio ci hanno bene abituati. Però qualche dubbio c’è comunque…
Le novità ci sono e sono due: l’abbandono, davvero un peccato, del batterista Lars Szoke, degnamente sostituito da Horgh, ex degli sciolti Immortal, e Andreas Holma da sessionman è diventato mebro della band a tutti gli effetti. Ciò che però è subito balzato all’orecchio, per tornare a parlare dell’album, è la rinuncia alle soluzioni più innovative e discusse del precedente “Catch 22”. La band ha infatti compiuto un deciso passo indietro, orientandosi verso soluzioni che fanno dell’album una sorta di via di mezzo tre dei loro migliori album del periodo più recente, “The Final Charter” e “Hypocrisy”, per quel che riguarda le parti melodiche, e “Into the Abyss” per quanto riguarda le parti più massicce.
Il risultato è valido, decisamente, poche band possono vantare un sound simile e l’abilità dei nostri sembra progredire album dopo album. Ma questo “The Arrival” mi dà la sgradevole sensazione di mancare di qualcosa, e i dubbi si fanno più insistenti ascoltando “Erased”, il single estratto dall’album: un gran bel brano, arrangiato bene e ben bilanciato fra melodia e potenza, forse anche troppo. Piace, ma non esalta, e questa sensazione non mi ha abbandonato per tutta la durata dell’album, a parte il terzo brano “Stillborn”, che nella sua graniticità ricorda da vicino i momenti più crudi di “Catch 22”.
La sensazione si fa sentire ancora di più nei brani più melodici dell’album, dove le tastiere giocano un ruolo essenziale, vale a dire “Slave to the Parasites” e “The Departure”: in questi brani la band sembra esser tornata indietro ai tempi di “Hypocrisy”, quasi a voler riproporre brani come il mitico “Time Warp”, ma è come se i nostri non ci riuscissero del tutto, sembra come se qualche ingranaggio nel meccanismo si sia rotto e viene il dubbio che questi pezzi qui dentro ci azzecchino davvero poco!
Ma qual è il filo conduttore dell’album? Francamente, pur apprezzando gli Hypocrisy da anni non saprei rispondere con esattezza, e mi sorge il dubbio che il passo indietro dopo “Catch 22” sia stato fatto con le idee poco chiare: intendiamoci, quest’album è realizzato davvero bene e contiene tutti gli elementi che i fan della band hanno amato a partire da “Abducted” e sicuramente piacerà.
Pezzi monolitici come “New World” e “Dead Sky Dawing” sono delle mazzate in puro stile Hypocrisy che fugano ogni dubbio sulla bontà dell’album e c’è da scommettere che in sede live renderanno parecchio, ma purtroppo tocca ammettere che l’intero album suona come un grande compromesso, e pur essendo di ottima fattura è un livello sotto rispetto ai loro migliori lavori e non è un discorso di mancanza di innovatività: semplicemente non sono riusciti ad eguagliare quei livelli, punto.
Ad ogni modo, questa non è certo una bocciatura anche se può suonar come tale: questo è un ottimo album death metal nello stile unico degli Hypocrisy, un prodotto di alta qualità che molte death metal band si sognano. Da tenere in considerazione fra le potenziali migliori uscite dell’anno, anche se col senno di poi ci sarà il rischio di preferire i loro vecchi lavori.
Insomma, gli alieni sono arrivati, ma l’entrata non è stata così trionfale…