British Sea Power – Open Season

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L’ultimo ricordo che ho dei British Sea Power è legato al ripetuto ascolto di The Decline Of, un album difficile da assimilare per le 2 anime contrastanti che vi risiedono (pazza ed elettrica, romantica e rilassata). Il ricordo è quindi quello di un gruppo dalle grandi potenzialità, ma con le idee confuse e poco chiare.
Alla luce di questo Open Season i British sea power hanno messo la testa a posto, tutto sta a vedere se il posto in cui l’hanno messa sia giusto o meno.
Delle 2 anime ha prevalso la seconda, limando gli scatti epilettici delle taglienti telecaster e placando la folle batteria che martellava incessantemente ora su il rullante ora su il charleston (ah, ma che gran canzone che è Remember me!). In un certo senso l’anima romantica/dannata che strizzava un po’ l’occhio ai Suede di Dog Man star (amore mantenuto in alcuni pezzi come l’iniziale It ended on a oily stage) sembra essere risalita alle origini, andando a bagnarsi nel raffinato lirismo di Morrissey e Smiths (Vicotrian ice, Be Gone ). Il pop romantico e malinconico, rassegnato e speranzoso allo stesso tempo,che pervade l’album porta in mente altri “grandi” songwriters inglesi con il gusto del triste: Brett Anderson, LukeHaines e gli Auteurs, i Gene. I brani, spesso ricchi di archi e impreziositi da qualche slancio “epico” (Please stand up) scorrono via piacevoli, insinuandosi grazie alla vena melodica (Like a Honeycomb), agli arrangiamenti caldi che si coccolano tra loro, a quell’atmosfera di dolce risveglio che pervade l’album, che ora si fa alba che illumina pian piano (The land Beyond), ora tramonto tranquillo (North Hanging Rock) in cui abbandonarsi.
La penombra e le nubi che sembravano avvolgere la band, quell’aria turbata e gli scatti epilettici si sono quindi persi liberando un gruppo che sembra aver perso la conoscenza del distorsore e della grinta.
Già, perché se da un lato i British Sea Power sembrano aver trovato il giusto equilibrio dall’altro lasciano un grande vuoto nelle loro capacità. L’anima “ruvida”, quella che -diciamocelo- li aveva portati alla ribalta, con le loro distorsioni taglienti e affilate, con la travolgente carica dei loro live e la voce squilibrata di Yan è totalmente scomparsa, sepolta sotto una massiccia dose di sedativi e calmanti. Se prima i British Sea Power erano dei soldati, pronti a combattere e a lanciarsi in battaglia adesso sono dei reduci di guerra, che amano guardarsi alle spalle soddisfatti, ricordando i momenti migliori e cullandosi sui risultati guadagnati.
Un po’ presto contando che siamo al secondo album.
Con questo non voglio dire che l’album è brutto, tutt’altro. Anzi, guardando nel panorama mancava giusto un gruppo che andasse a colmare il vuoto lasciato dai Suede, persi in un mare di melassa, e Auteurs. Certo non c’è la chitarra di Butler dei primi, né la capacità di scrivere canzoni/racconti di Luke Haines, ma c’è lo stesso gusto per una scrittura dolce-amara, per canzoni struggenti che strizzano il cuore e per il cantato ricco di riverbero e chorus.
Dico solo che la giusta dimensione si poteva anche trovare cercando una via di mezzo, riuscendo a contenere le due anime della band e facendole convivere al meglio assieme. Anche perché qualche caduta di stile in una scelta di sound così netta è impossibile da evitare (Victorian ice sembra, anzi è il classico pezzo tappabuchi). Risultato? Le canzone che più resta in testa è quella dove la band si scatena di più (How will i ever find my way home?).
Un vero peccato, perché alla fine si ha l’impressione che Open Season è un album che non ha niente da dire… ma fortunatamente lo sa dire con grandissimo stile.