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A guardare gli Oneida, comporre un album dovrebbe essere una cazzata: step by step 1) ti fai venire un’idea, che in questo caso è “facciamo un disco melodico”; 2) ti riempi mentalmente di acidi; 3) lo suoni; 4) lo dai alle stampe e lo fai uscire. Sembra una presa in giro, eppure fanno così: il processo creativo (che sembrerebbe abbia radici ultraterrene, altrimenti la cosa diventa inspiegabile) dei tre fa sembrare questo lavoro totalmente naturale, come se le canzoni potessero essere suonate solamente in quella maniera e l’uscita per il 2005 fosse la cosa più ovvia della terra. The Wedding è il frutto della chiara decisione di rapire un ensemble di musica da camera e scordargli i violini, costringendoli a suonare insieme ai Can: a tutto questo aggiungeteci i Jefferson Airplane, i Velvet Underground e il fatto che il trio di Brooklyn riprende in mano la forma-canzone e avrete un disco straordinario dove l’anima kraut/psichedelica dei nostri esplode letteralmente. Un intero disco costruito interamente sulle possibilità delle tastiere e della voce, disturbato da clangori metallici, violini, drum machine e riverberi che molte volte lasciano intravedere sprazzi di raga indiani e di musica classica (Heavenly Choir, The Eiger). Niente più progressioni noise/acide di chitarra, che viene lasciata quasi da parte (a parte l’episodio Did I Die, mix garage tra gli MC5 e i Black Sabbath) a discapito della melodia (pur sempre allucinata, vedi la filastrocca folk di Run Through My Hair): la verità è che gli Oneida danno alle stampe un lavoro che, con la scusa del pop, mette insieme tredici piccoli capolavori quasi senza accorgersene, meritandosi appieno la targa di “gruppo migliore degli ultimi dieci anni”.