Godspeed You Black Emperor! – Lift Your Skinny Fists Like Antennas to Heaven

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Mi accingo con molto piacere e anche con un pizzico di timore a parlarvi di questo album. Questo perché l’ho scoperto da poco e ne sono rimasto totalmente conquistato: penso di aver sentito poche cose in vita mia che, anche senza l’aiuto delle parole, riescano a dare all’ascoltatore una tale partecipazione emotiva, un senso di estasi musicale unico e perfetto. Quindi preparatevi a leggere un bel po’ di sbrodolate adoranti su questo doppio cd. Tra le tante sbrodolate eviterò di menarla sulle canzoni divise in sezioni, sul diagramma contenuto nel libretto che dovrebbe permettere di capire l’album e su tutte queste sviolinate, questo disco potrebbe essere bianco come il “( )” dei Sigur ros, perché la musica dei Godspeed non ha bisogno di spiegazioni, non ha bisogno del solito critichino che vi dica cosa sentirci e cosa non sentirci, semplicemente ognuno ci ascolta un po’ quello che vuole, il tecnico ci sentirà la tecnica e l’emozionale ci sentirà la emozioni. Dato che personalmente ho delle serie difficoltà anche a suonare un citofono vi parlerò di cosa provo io ascoltando questo album, anzi facciamo così: è un bel disco, quattro tracce suonate in maniera impeccabile e con lampi di genio unici, correte a comprarlo! Ok, ora se non vi importa delle mie impressioni smettetela di leggere, sennò continuate pure. Inserisco nel lettore il primo cd e spengo la luce. Il primo cd si apre con “Storm”, appunto una tempesta, un climax splendido porta l’ascoltatore verso un mondo pacifico e allo stesso tempo funestato dalla tempesta di chitarre, percussioni, fiati, linee di basso che i canadesi lanciano dai loro strumenti. Il salire della canzone diventa quasi frustrante, si prega per un’esplosione sonora che non arriva e già dai primi 6 minuti di traccia si capisce che l’opera sarà veramente maestosa. Dopo 6 minuti invece della tanto agognata esplosione il brano si ferma, ragiona, scende per diventare melodico, un’armonia perfetta. Chiudi gli occhi, li riapri lentamente e vieni trasportato, cullato, estasiato da queste note, e si arriva a 10 minuti di brano e la musica risale, si rifà forte dopo quell’attimo di debolezza, una traccia di malinconia esce dalle casse dello stereo e ti assale. E la malinconia diventa rabbia, ma una rabbia sommessa e umile che pian piano ritorna a essere calma, come una disillusione. Come finire? Segnali di vita, voci, suoni, un pianoforte sembra piangere lente lacrime. Finisce il primo brano, inizia il secondo, il mio preferito dell’opera: “Static”. I primi minuti di static son rumori, si accolgono, si aspetta, si è in attesa. Arriva una voce ovattata (la mia scarsa conoscenza dell’inglese non mi permette di dirvi di cosa diavolo parli) accompagnata da un semplice violino, freddo, statico appunto. La voce sparisce subentra una triste chitarra e pian piano si aggiungono gli strumenti, a cucire uno splendido tappeto sonoro dove i Godspeed adagiano il loro ascoltatore. Dalla quiete di questi primi 10 minuti di “Static” si arriva accompagnati dallo xilofono a quello che può essere definito solo come un delirio, un urlo silenzioso e violento, una cavalcata senza sosta che porta a una goduria musicale unica, e quando il pezzo sale e arriva all’esplosione sonora vorresti essere in studio di registrazione a urlare la tua rabbia come fanno loro con gli strumenti. Bene, se avete letto fin qui avrete capito che andrò per le lunghe, ma questo doppio album per me è qualcosa di veramente unico e prezioso. Levo il primo cd e metto il secondo, accendo una sigaretta. Sempre voci, anche “Sleep” inizia così, con un monologo. Violini, un giro semplice di chitarra. “Sleep”, dormire, il suono dei sogni. Un mare calmo e placido, la calma piatta. Pian piano il brano (il più lungo dell’album coi suoi 23 minuti e passa) va costruendosi, va delineando l’atmosfera pacifica e ricercata che gli strumenti costruiscono. Poi come un lampo a ciel sereno arriva una sberla sonora, un risveglio dall’estasi che si era raggiunta, Gli artisti richiamano l’attenzione, fanno svegliare di soprassalto i sensi, restano i suoni, la cassa della batteria corre sorda come un cuore stressato e si ritorna alla pace per poi venire risvegliati con un altro schiaffo sonoro finale, meno forte ma ugualmente di grande impatto per chiudere con la splendida armonia finale, il risveglio totale con una terza botta sonora che va a chiudere il pezzo e che lascia l’ascoltatore un po’ con l’amaro in bocca, un pezzo simile potrebbe durare ore e ore e non perderebbe nemmeno un briciolo della sua forza e della sua bellezza. Il blues, un nastro rovinato con una chitarra sghemba e una voce mugugnante, così inizia la conclusiva “Antennas to heaven”. Voci in sottofondo su velluto sonoro, suoni, suoni che però riescono a trasmettere più emozioni e più forza di tutte le parole di tutte le lingue. “Antenna sto heaven” è un brano potente che parte di colpo, dopo 5 minuti di viaggi sonici. Parte con gioia, con beatitudine e si insinua nella testa, e come da copione poi si calma per risalire e per concludersi con un turbinio sonoro semplice ma diretto. Stop, fine. Queste le mie impressioni, la mia ricostruzione di un disco cervellotico, che non va solo ascoltato, va vissuto, va assaporato in ogni sua nota perchè ogni suono è un sentimento, è una rappresentazione.