Dream Theater – Octavarium

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Non è mia intenzione sollevare, per questo “Octavarium”, altre polemiche in aggiunta a quelle già emerse per il mio articolo su “Live at Budokan”, dove per altro mi si faceva notare che il sottoscritto non aveva parlato della musica del gruppo, ma semplicemente esternato considerazioni personali sul gruppo e sul rock. Bene: allora vado a riparare quanto fatto in quell’articolo proponendovi una recensione track by track di questo nuovo album, che vede luce 13 anni dopo “Images And Words”, 11 dopo”Awake”, i dischi capolavoro, ma anche gli incubi eterni dei Dream Theater, poiché sono, che lo vogliano e lo vogliate o meno, il termine di paragone pesante ed ingombrante che siamo costretti a fronteggiare ogni volta che Petrucci e co. decidono di tornare sulle scene. Leviamoci il pensiero: missione riuscita? Purtroppo no. Ma passiamo al disco. “Octavarium”, ottavo album in studio del teatro del sogno, ci giunge a due anni di distanza dal discreto “Train Of Thought” e si vocifera essere l’ultimo per l’Atlantic, cosa che dovrebbe garantire maggiore spontaneità e tranquillità per i futuri progetti del gruppo. Si parte con una composizione scura, tirata e molto heavy, “The Root Of All Evil”, strutturata su un buon riff di Petrucci che intende riesplorare le affascinanti atmosfere scure di “Awake” e “Train Of Thought”. Da segnalare la ripresa del refrain di “This Dying Soul”, facendo passare per finezza qualcosa che personalmente ritengo una palese crisi di idee. Vabbè, perdonate la considerazione personale. Quel che invece non ha a che fare con una questione personale è l’assoluta mancanza di mordente del brano, che sembra dover esplodere in chissà quale progressione, ma al contrario se ne sta in una sorta di limbo creativo che ne limita il decollo, sebbene quasi tutti gli elementi del gruppo siano facilmente riscontrabili: tecnica, potenza, melodia. Non un brutto brano, intendiamoci, ma volendola buttare sul calcistico, “The root of all evil”, corrisponderebbe ad un noiosissimo 0-0 di fine stagione, magari premeditato per non far male a nessuno, quando tutti i verdetti sono già stati decretati. A ruota segue “The answer lies within”, ballatona ultra melodica e romantica, sulla scia di quanto ascoltato in certi episodi di “Falling Into Infinity”, ma “Anna Lee” e “Hollow Years”, per quanto ingiustamente bistrattate e odiate dallo zoccolo duro dei fans, erano in tutta onestà composizioni di ben altro spessore che mettevano in luce tra l’altro una spiccata inclinazione per certo pop rock d’atmosfera e di classe. Al contrario qui siamo di fronte nuovamente ad un nulla di fatto, si avverte chiaramente l’ intento dei nostri di colpire l’ascoltatore nel profondo, ma questa tanto ricercata fitta al cuore non arriverà mai durante l’ascolto di “The Answer lies within”. Prime notizie confortanti su “These Walls”. Niente di epocale, ma il brano è sicuramente buono, evidenzia l’esaltante drumming di Portnoy sulle strofe, in cui si ha di nuovo la sensazione di una esplorazione di “Awake”, soprattutto per la perizia con cui sono stati riproposti certi suoni delle clean guitars e della batteria che volendola dire tutta corrispondono al manuale del buon suonatore di prog metal, ma che tuttavia risultano di efficace intrattenimento. Ottimo il bridge con un Labrie ispirato e un Rudess finalmente intelligente. Scialbo, nonchè infantile, il ritornello. Ma se fino ad adesso la bruttezza in quanto tale non aveva osato avvicinare nessuna di queste composizioni, mi duole comunicarvi che per la successiva “I walk beside you” i nostri hanno deciso di percorrere in lungo e largo i sentieri più o meno conosciuti del cattivo gusto, in una composizione che qualcuno definirebbe a ragione “rockettino da spot per cellulari”, ed in più spompato, decisamente brutto, che nemmeno l’ultimo rocker di casa nostra oserebbe pubblicare. Senza mezzi termini il punto più basso dell’ intera carriera dei Dream Theater. Si rientra negli ambiti della decenza in “Panic Attack”, composizione violenta e granitica, caratterizzata da un riff introduttivo del basso di Myung finalmente in evidenza. Ma è in solo. Stilisticamente si chiamano in causa alcune soluzioni adottate per “Six Degrees of Inner Turbulence”, ma neanche per questo brano riusciamo a registrare momenti da ricordare, mentre per la successiva “Never Enough”, a parte le solite divagazioni Thrash Metal che da tempo affascinano incomprensibilmente i signori Portnoy e Petrucci, si registrano interessanti tentativi di contaminazione con certo rock moderno, soprattutto per l’atipico chitarrismo di Petrucci, che sembra giocare a fare il verso a Matt Bellamy dei Muse. Ma veniamo all’episodio più riuscito del disco, “Sacrificed Sons”, composizione di oltre 10 minuti che si aggira inizialmente in territori affascinanti e misteriosi, con un piano misurato e una chitarra liquida ben strutturata intorno alle belle vocals di Labrie, per poi accasarsi nelle tipiche progressioni theateriane che vorremmo sempre sentire, in cui emergono momenti di tecnica indiscutibile e non fine a sé stessa ed altri di squisito senso melodico, in cui viene da chiedersi perché i Dream Theater alternino momenti indubbiamente ben riusciti, come questi, ad altri, troppi in realtà, da dimenticare con una certa urgenza. L’episodio finale del disco è la pachidermica suite di 24 minuti tondi tondi che da titolo all’album. Spacciata per la nuova “A change of seasons” (e a Roma direbbero “Ma de che, ahò…”), “Octavarium” è in realtà una sorta di tomo con istruzioni per la costruzione di una prog suite, senza alcun valore artistico, che ripercorre in lungo e in largo 30 anni di storia del progressive rock e del rock sinfonico. Si scomodano nell’ordine: Pink Floyd all’inizio, Yes nello sviluppo dell’intro, Queen e Elton John nel primo tentativo di costruzione strofa/ritornello, Iq, Pendragon e Marillion ed in genere il New Prog nell’assolo di moog, o quel che è, intorno al minuto 12, Genesis nell’ immediatamente successiva progressione cantata. Il tutto prepara allo scontato momento ultra tecnico theateriano che farà la felicità dei suggestionabili, ma che in realtà odora pesantemente di già sentito, per di più trattasi di passaggi ai limiti dell’inascoltabile, riproposti in tutte le tinte su composizioni estreme come “The Dance of Eternity”. Le sorti si risollevano sul finale quando si ripropongono in chiave chitarristica i temi centrali della suite. Ma trattasi di momenti tristemente isolati che non cambiano le sorti del brano. Dunque i Dream Theater registrano l’ennesimo passo falso, in un disco con pochi spunti e molte, troppe cose che non vanno. Il problema di oggi si chiama John Petrucci: mai così in crisi d’ ispirazione, mai così fastidiosamente anonimo, le sue performance mancano di quell’ossigeno vitale che avevano impreziosito certi capolavori del passato, forti di uno stile unico tra il virtuoso ed il melodico che al tempo non aveva confronti. Oggi John suona duro, molto duro ma non incanta più. Almeno su disco. Soltanto onesto il lavoro dei suoi colleghi. A questo punto si fa necessario un ripensamento di Kevin Moore o quanto meno dell’ ottimo Derek Sherinian, compositori che per questo teatro fatiscente potrebbero fare la differenza. Mi rincuora solo che questo dovrebbe essere l’ultimo album su commissione. Auguro ai Dream Theater un lungo e riflessivo periodo di riposo. Io li attendo tra qualche anno con un vero capolavoro. “Octavarium” non ha e non avrà storia.

Autore: Andrea Crivellaro

Rispettando la tiratissima tabella di marcia che si sono autoimposti da qualche anno a questa parte, i Dream Theater non mancano all’appuntamento col 2005 e sfornano questo Octavarium, successore dello sperimentale Train of Thought che riporta la band su percorsi più tradizionali – anche se con una band del genere è difficile definire cosa sia tradizionale e cosa no… Raggiunto un livello tale di notorietà da innescare un’esplosivo ed eterno dibattito su di loro (che già al momento stesso dell’annuncio di un album raggiunge picchi vertiginosi… figuriamoci quando l’album esce davvero…) e mantenendo – tra una citazione musicale qui e là e una prolissità figlia minore dei Liquid Tension Experiment – un livello qualitativo abbastanza alto da garantire loro una strenua difesa dei fans contro chi invece è in primo luogo indifferente alla loro proposta musicale e, di rimando, infastidito da tanta fama ed esposizione, i Dream Theater si fan strada in questo marasma mediatico con un album molto più sobrio e variegato rispetto ai due precedenti; ci sono meno eccessi strumentali (come quelli che han portato quasi tutte le canzoni di Train of Thought sopra i 10 minuti), ci sono molte più aperture melodiche e stili diversi (due ballate, una titanica title track da 24 minuti, pezzi più tirati ed un midtempo, insomma quell’alternanza che, per fare un esempio, era uno dei tanti pregi di Awake e che a livello personale mi auguravo tantissimo che tornasse), mentre è rimasto uno degli aspetti più criticati della band, ovvero il fare ricorso a citazioni più che ovvie alle bands che li hanno influenzati; alcune sono velate e ben integrate (come gli U2 nel ritornello di I Walk Beside You), altre ben più sfacciate (come i Muse in Never Enough), ma comunque sono sempre lì. Fa comunque piacere vedere che i Dream Theater siano tornati alla forma canzone; dopo gli eccessi di Six Degrees of Inner Turbulence (un album in cui si sono fatti trasportare senza limiti, per me una sorta di “vendetta” contro la casa discografica che li aveva limitati così tanto ai tempi di Falling Into Infinity, per poi arrendersi dopo Scenes from a Memory e dar loro carta bianca su tutto) e Train of Thought che pur avendo una direzione aveva ancora, come detto prima, moltissime parti strumentali che allungavano inutilmente i brani, Octavarium è molto più bilanciato e permette a Jordan Rudess (ma anche James LaBrie) di mettersi in mostra più di quanto sia stato loro possibile negli ultimi due album. Ma andiamo con ordine. L’album parte con l’ormai familiare giochetto di riprendere da dove il disco precedente si è fermato – l’ultima nota di piano di In the Name of God, quindi, dà il via a The Root of All Evil, terzo capitolo della saga di Mike Portnoy che copre i 12 punti dell’Anonima Alcolisti per riconquistare la sobrietà e guarire dalla dipendenza; l’approccio è ormai noto, una canzone comunque nuova ma costruita sulle fondamenta sia musicali sia testuali dei precedenti capitoli. Un bel brano, che cresce alla distanza, non frenetico come i precedenti due ma più strutturato, cupo e incalzante nelle strofe e melodico e aperto nel ritornello. A seguire, in totale contrasto, arriva la prima ballata del disco, The Answer Lies Within: Un pezzo delicato e sognante, molto semplice (troppo semplice forse? fa niente… dopo canzoni inutilmente prolisse ben venga un ritorno alla semplicità e alla voglia di donare emozioni), in cui James LaBrie la fa da padrone e dona vitalità e sentimento ad un testo che, preso da solo, è relativamente banale. L’altra ballata che giunge poco dopo, I Walk Beside You, è ancora migliore: un brano essenziale e diretto, con strofe in tensione che poi sfociano in un ritornello solare ed emozionante, con atmosfere alla U2 ed una carica emotiva che non si sentiva da tempo. I puristi che aborrono tutto quello ascoltato da più di 1000 persone e gli intransigenti che rimarrano negativamente colpiti dalla semplicità del pezzo grideranno “commerciale” e bolleranno la canzone come un tentativo di creare un hit (anche se non sono stati girati video o fatti uscire singoli), ma anche se così fosse, questo non toglie nulla dal fatto che nella sua semplicità I Walk Beside You riesce a donare sensazioni positive ed emozioni, che è poi quello che dovrebbe fare una canzone, riuscire a toccarti in qualche modo. In mezzo a questi due brani troviamo uno dei migliori brani del disco, These Walls, in cui la tecnica è al servizio della canzone e non il contrario: strofe ben fatte e delicate, un ritornello memorabile, nessun assolo lunghissimo a portare fuori tangente il brano… una canzone che rifugge da jam che stan bene nei side projects e citazioni che stan bene sugli album originali, una canzone dei Dream Theater insomma – questo tipo di canzoni è quello che per me san fare meglio, e son stato contento di trovarne su questo album e spero che ce ne saranno in numero ancora maggiore nei prossimi a venire. Dopo la prima parte decisamente positiva del disco, la seconda è più cupa, sia a livello musicale che testuale: Panic Attack è il brano più tirato del lotto, una canzone che sarebbe stata bene su Train of Thought e il cui titolo è tutto un programma riguardo sia alla musica che al testo; Never Enough è invece l’ormai famoso “tributo” ai Muse (è innegabile la pesante ispirazione che è presente nelle strofe e nel modo di cantare di LaBrie), brano a cui comunque il gruppo è riuscito a dare il proprio marchio e che a livello testuale è una più che esplicita accusa a quella parte di fan (identificata come l’1% da Mike Portnoy) che si lamentano di ogni decisione del gruppo e per cui, citando il testo, “niente è mai abbastanza”; Sacrificed Sons, infine, si riallaccia a In the Name of God per quel che riguarda il testo ed è un lento e sontuoso brano orchestrato, che convince sempre più con ogni ascolto ma che avrebbe potuto beneficiare di un migliore arrangiamento e di una parte strumentale centrale più in tono con la canzone (mentre sembra essere un altro jam incastonato nella struttura del brano, quando avrebbero potuto costruire una sezione più articolata e magari appoggiandosi all’orchestra vista la sua presenza nel brano). Arriviamo quindi alla title track, Octavarium… cos’è quindi questo brano? Non è una seconda A Change of Seasons, e non è neanche una suite come Six Degrees of Inner Turbulence, con vari parti di canzoni tenute insieme da un filo conduttore musicale e testuale. Octavarium è una canzone, è lunga, è bella, ed è fortemente influenzata dai padri del prog / rock a cui i Dream Theater devono tutto. Di che cosa la canzone e l’album in generale parlino, si sta discutendo a livelli impressionanti nei forum di tutto il mondo, le canzoni e l’artwork stesso (che rimane comunque bruttino, pur con tutto il significato che ci sta dietro) contengono una miriade di indizi e citazioni che non saranno stati decifrati neanche quando il prossimo album sarà uscito; le prime teorie propendono per un enorme ed allegorico tributo sia alla storia dei Dream Theater, sia a tutte le band che hanno influenzato la loro musica e sono state da ispirazione per iniziare una carriera musicale prima e portarla avanti poi. Un lungo intro atmosferico, con evidenti tinte PinkFloydiane, porta alla prima sezione cantata, “Someone Like Him” – una parte lenta e rilassata, che sembra alludere alle ambizioni giovanili di una qualsiasi persona (nel dettaglio, Petrucci che scrive forse?). Altrettanto lenta è la successiva “Medicate”, che sembra mal incastrarsi nella storia coi suoi diretti riferimenti agli ospedali e all’essere stato in coma per 30 anni; più ritmata è la sezione che viene dopo, “Full Circle”, che considero musicalmente e testualmente la migliore del brano. Con le tastiere di Rudess a creare una deliziosa atmosfera settantiana, James canta una melodia coinvolgente su un testo fenomale quanto assurdo nella sua genialità: infatti Portnoy ha messo ad incastro una lunga sfilza di citazioni di titoli di canzoni, musicisti e anche attori che sono stati motivo di ispirazione ed influenza per lui e la band, in modo che l’ultima parola faccia riferimento alla citazione successiva. “Jack the Ripper Owens Wilson Philips and my supper’s ready”, e ancora “Lucy in the sky with Diamond Dave’s not here I come to save the day”, o “Eugene Gene the dance machine messiah light my fire”… divertente da sentire e geniale da pensare, un passaggio che da solo va a riscattare gli altri momenti piatti a livello di testi del disco (la semplicità disarmante di The Answer Lies Within e i clichè stereotipati di Sacrificed Sons vengono in mente), e poi è imperdibile sentire James cantare “Gabba gabba hey hey” in omaggio ai Ramones. A ruota si incastra “Intervals”, in cui stavolta le citazioni riguardano, con poche righe, ogni canzone dell’album; un passaggio che in un crescendo di tensione esplode in un frenetico momento in cui James urla a ripetizione “Trapped inside this Octavarium”, probabilmente il momento più brutale dell’intera carriera del gruppo! al culmine di questo entusiasmante delirio i toni si smorzano e si riassestano su binari lenti e sinfonici, portando prima (con la sezione “Razor’s Edge”) il testo e poi la musica a conclusione con un gran finale maestoso e roboante, non necessariamente perfetto ma senz’altro di grande effetto. L’album finisce con la stessa nota con cui inizia, ad aggiungersi all’esagerato simbolismo sparso per tutto il disco. Che dire, dunque, dopo essere stati “intrappolati” in questo Octavarium? lasciando alle spalle sguardi nostalgici verso Images and Words e considerazioni sociologiche su come i Dream Theater scatenino un enorme e infinito dibattito mediatico ad ogni singola mossa che fanno, e guardando la sostanza (ovvero: l’album in sè) mi sento di dire che questo Octavarium è un disco più che buono, che non sfigura assolutamente a confronto con gli altri album e che presenta una band in salute e con ancora buoni spunti. Un disco godibilissimo e da scoprire ascolto dopo ascolto, con la speranza che gli elementi meno convincenti del loro stile che già sono stati diminuiti di molto rispetto al passato vengano abbandonati del tutto in favore delle tante idee positive che fanno di questo disco uno dei più solidi sinora usciti quest’anno.