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Così, su due piedi, verrebbe anche da pensare che questi gruppi canadesi dell’ultima ora un po’ hanno rotto con il loro essere 5, 6, 7 o 8 in un gruppo vantandosi di avere una persona specifica per il Clap hand o per suonare il triangolo. Stessa cosa si potrebbe dire dei A Northern chorus, se non fosse che loro non sono certo gli ultimi arrivati, e che solo nell’ultimo tour erano in 7 sul palco, nell’album la line up si è stabilizzata su 5 componenti Bitter Hands Design è il loro terzo lavoro e segue di 2 anni il precedente Spirit Flags e l’interessante versione di Slide nell’album tributo ai Low. Le carte in tavola sono sempre quelle, un dream pop che ama perdersi nello shoegazer senza ricorrere a muri di feedback fini a sé stessi, usando magistralmente archi e violini, acustiche e melodie nostalgiche e cariche di spleen, ma qualcosa nei loro brani convince di più, resta maggiormente dentro. Vuoi il packaging più curato che li fa apparire come un gruppo ancor più di nicchia di quel che sono o un uso nelle registrazione del reverb ancora più marcato che conferisci un’aura opaca, sognante ed eterea, ma gli A Northern Chorus sembrano con questo nuovo lavoro aver centrato l’obiettivo che fin dai tempi di Before we all go to pieces cercavano di raggiungere: un album quasi onirico come solo i Mercury Rev sapevano fare Bitter Hands Design è il disco dell’abbandono e della solitudine, della rassegnazione e della malinconia, un disco che trabocca di spleen e non si può prendere in mano perché è troppo intriso di sangue. Le canzoni eccedono talvolta in pathos (The Shepherd & the Chauffeur) ma cullano ed ammaliano con il loro lento incedere che, per certi versi, ricorda i Sigur Ros o Sianspheric. Oltre ai 4 islandesi (che sono più orchestrali distaccandosi dallo spirito “pop” degli A Northern Chorus) o le altre band che di solito vengono nominate accanto ai Northern Chorus sembra di sentire una nuova versione/visione dei L’altra, una sorta di perfetta evoluzione da In The Afternoon verso un indie meno elettronico e più acustico. Certo poi ci si sveglia e ci si accorge che i Northern Chorus non sono i L’altra, e che il seguito di In The Afternoon e l’orribile Different Days ma questa è un’altra storia, quel che è interessante sapere è che le potenzialità ci sono e il gruppo sta delineando una personalità propria. Hanno imparato a creare il giusto contorno alle loro canzoni, a donare un paesaggio ai loro brani, a saper miscelare le elettriche sempre cariche di delay e flanger alle acustiche, a saper giocare al meglio con gli archi sulle viole e sulle elettriche stesse, ed è così che magicamente gli 8 e passa minuti di This Open Heart sono forse la canzone che resta più dentro.seguita a ruota da Prisoners of Circumstance e Costa del Sol, ovvero i brani dal minutaggio più lungo di tutto il lavoro. Potrebbero apparire pesanti, melensi e soporiferi, ma in questo caso avete l’animo di granito e non ve ne siete mai accorti.