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Detto e fatto. Il buon Elliott ha mantenuto la promessa e da rocker di razza ha iniziato la sua metamorfosi in bluesman, attuando un ritorno alle origini che ultimamente sembra andare per la maggiore fra artisti più o meno famosi. Ecco quindi che mi ritrovo finalmente fra le mani questo atteso “Murphy gets Muddy”, ennesima fatica di Elliott e del fido Olivier Durand. Mi tocca ammettere che il primo impatto con quest’opera è stato così così, con capolavori della storia del blues che spesso mi sono apparsi snaturati, privi dell’energia ruspante e dell’irriverenza fuori dagli schemi che caratterizza il padre del rock: in particolare, non posso negare di esser stato più volte tentato di spegnere lo stereo ascoltando le versioni di capisaldi quali “Terraplane blues”, “I got my mojo working” o una irriconoscibile “Mannish Boy”, pensando che il buon Elliott fosse impazzito nel proporci un blues così patinato. Tuttavia, pensare che un artista del suo calibro si sia dimenticato come si suona il blues era una follia, e alla fine ho concluso che l’errore stava nella mia prospettiva di ascoltatore: ripensando ai suoi concerti o ai live album dove il nostro eroe dava vita a interpretazioni favolose di capolavori blues, ecco che la soluzione è arrivata. Elliott non si è scordato cosa sia il blues e come questo vada suonato, Elliott semplicemente ha voluto dar vita al SUO blues, ridando nuova linfa vitale all’incredibile serie di capolavori presente in questo disco. Ecco quindi che queste nuove versioni acquistano un proprio, ben definito senso, e “Murphy gets Muddy” non è più un semplice brano di cover per soli aficionados, ma un nuovo lavoro a tutti gli effetti che ci rivela un lato inedito del bravo Elliott; i brani succitati, visti in questa nuova prospettiva, colpiscono per la loro seducente atmosfera a tratti cantautorale, e così anche altri classici come “The Thrill is gone”, da brividi fino all’ultimo secondo. Non dobbiamo ad ogni modo dimenticarci della presenza di ben quattro ottimi inediti: “Hey Gunslinger”, raffinato white blues, “Open City” col suo accento fra country e blues del delta, una meravigliosa “Artificial Paradise” che sembra volerci condurre in un giro notturno lungo il Mississippi, e la conclusiva, romantica “The Beginning and the End”. Quattro brani che si muovono lungo le coordinate del blues più classico e ci confermano la straordinaria ispirazione di Elliott, che ha ancora molto da dire e da dare alla musica, in questa sua ennesima giovinezza. Un album raccomandato tanto ai fan di Elliott quanto a chi ama il blues, un progetto riuscito e qualitativamente anni luce superiore a più recenti e reclamizzate iniziative di tributo… chi ha parlato di Eric Clapton?