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Una biografia che sembra fatta apposta per essere raccontata, quella di Juana Molina. Nata nel 1962 da una famiglia dell’alta borghesia Bonarense, esule in Francia a seguito del rovinoso colpo di stato del ’76 e rimpatriata appena maggiorenne, giusto in tempo per firmare un contratto e diventare una celebrità degli eighties sudamericani grazie ad una fortunata sitcom che tradotta suonerebbe come un viscontiano “Juana e le sue sorelle”. E se vi dicessimo infine che la giovane Molina trascorreva le vacanze d’infanzia giocando a carte con Chico Buarque (quando a noi sciagurati nelle giornate di grazia capita al più di incontrare Drupi in metrò) concordereste sul fatto che occorra una discreta dose di dissennatezza per trovarsi nel 2006 a dispensare arie folk spruzzate di colori carioca e field recordings invece di riciclarsi in qualche luccicante postribolo televisivo. E dire che sono dieci anni che semina note al vento e al quarto appuntamento ancora si riveste di chitarre acustiche timide ed ondeggianti, tanto che i suoi pezzi offrono la costante sensazione di ninne nanne per il sereno risveglio tanto delicata e protettiva è la sua voce (materna, pare che canti ad occhi chiusi…) e avvolgenti gli arrangiamenti che tra suoni concreti, soffi e sbotti di drills e glitches stuzzicano la mente a concepire una nuova interessantissima forma di tropicalismo, sobria e appena accennata (bossanova e una diafana forma di salsa aleggiano senza mai davvero materializzarsi). Lo scenario ideale per cogliere il frutto di questa appassionata melanconia è un assolato pomeriggio d’estate, magari in un prato nell’ora che precede il tramonto, ma se anche doveste trovarvi nei più sordidi antri della banlieu milanese sarà Juana a fornirvi il degno corredo di cinguettii d’uccelli, vento tra l’erba, fischiettare di passanti in bicicletta. Non intendo spacciarvelo come un capolavoro perché proprio non lo è; la scrittura della ragazza ha qualche limite sulla lunga distanza e indulge forse troppo nel dilatare il minutaggio di pezzi che spesso in tre minuti e mezzo lascerebbero maggiormente il segno; l’andamento ondulatorio e circolare della maggior parte dei brani risulta sempre gradevole e ricco di spunti, ma talvolta le chiederesti un guizzo improvviso, una imperfezione risolutoria. Poche cantautrici al mondo però hanno oggi un suono tanto personale e inconfondibile e la scelta della lingua spagnola, nonostante il trasferimento a Los Angeles, conferisce ulteriore poesia alle atmosfere tracciate. Un po’ Tara Jane O’Neil nel riuscire ad essere “altro” seppur in un contesto palesemente folk, un po’ Vasti Bunyan per la vaporosa impalpabilità.
”Yo no quiero ver màs a todo aquel que se ha ido”, sussurra Juana nel verso che inaugura questa sua raccolta, e non riesce a trovarci neanche un filo d’accordo.