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Sono fermamente convinto del fatto che Stevie Ray Vaughan sia stato il più grande blues man di tutti i tempi.
Si badi bene, “blues man” e non semplice “chitarrista blues”. Già, perché il texano non è stato solo un chitarrista impareggiabile ed un vocalist blues straordinario, ma è stato prima di tutto un essere umano che il blues lo ha “vissuto” per davvero.
Tutto nella sua vita parlava del blues. Dalla sua immagine, con l’inseparabile cappello e gli immancabili stivali texani da moderno cowboy, ai travagliati avvenimenti che scossero la sua esistenza, la dipendenza da alcol e droga, gli amori tormentati, fino alla tragica scomparsa in un incidente di elicottero il 27 Agosto del 1990.
Molti sono stati, nel corso di oltre un secolo di storia, i grandi interpreti del blues, ma forse nessuno è mai riuscito a impersonificare alla perfezione il genere come Stevie Ray Vaughan, al quale mi sentirei tranquillamente di poter attribuire il soprannome che già fu del suo padre spirituale Albert King, “Mr. Blues”.
La riprova di ciò risiede nella enorme considerazione di cui Stevie godeva presso tutti i grandi vecchi del blues, proprio a cominciare dal suo mentore Albert King, fino all’amico Buddy Guy, nonché nella profondissima costernazione causata in tutto il mondo del blues (e non solo) dalla sua tragica e prematura scomparsa e, privilegio solo di pochi grandi, nella straordinaria influenza che la sua figura ha esercitato su praticamente tutti coloro che, dopo di lui, hanno inteso percorrere le solitarie e polverose strade del blues.
Di Stevie Ray Vaughan come musicista c’è poco da dire. Egli è stato semplicemente uno dei più grandi chitarristi di tutti i tempi, blues e non solo. Imparata alla perfezione la lezione dei suoi grandi maestri (Jimi Hendrix, Albert King, Albert Collins ed un’infinità di altri) Stevie ha saputo costruire una sua personale “via al blues” conciliando in maniera assolutamente straordinaria, passione, feeling ed un’impeccabile tecnica chitarristica.
Ne è una chiara testimonianza questo ‘Texas Flood’, primo capitolo della saga Vaughan datato 1983, che vede il nostro eroe in compagnia dei fidati Tommy Shannon al basso e Chis “Whipper” Layton alla batteria, a formare la prima line up dei Double Trouble (in seguito si unirà al gruppo anche il tastierista Reese Wynans).
Il disco in questione è sostanzialmente la trasposizione su vinile (ora su cd) del demo tape che Jackson Brown offrì a Stevie ed ai suoi di registrare nel suo studio personale, dopo avere assistito alla oramai mitica esibizione del blues man texano al Festival di Montreaux nel 1982.
La registrazione in presa diretta, ed una produzione non eccessivamente curata (per non dire approssimativa) riescono nell’intento di catturare lo straordinario feeling sprigionato dalla chitarra di Stevie, sempre in primissimo piano, con il suo fluente fraseggiare, ora stridulo e lancinante, come nello slow blues capolavoro “Texas Flood”, ora delicato, a tratti quasi sussurrato, come nella conclusiva “Lenny”, tenera ballata strumentale di hendrixiana memoria, dedicata da Stevie alla moglie Leonor.
Alle velocissime “Testify” e “Rude Mood”, gli altri due strumentali del disco, è affidato invece il compito di mostrare la straordinaria tecnica del virtuoso texano, in particolare una pulizia ed una precisione esecutiva non comune tra i chitarristi blues.
La splendida “Dirty pool”, concettualmente agli antipodi rispetto ai due brani precedenti, è un sofferto slow blues ricamato sulle incessanti trame chitarristiche tessute dalla mitica “Number 1” di Stevie.
“Love Struck Baby”, brano d’apertura del disco, vede invece il nostro alla prese con un “primordiale” rock’n’roll in stile anni ‘50, magnificamente sostenuto dalla coppia Layton – Shannon, sezione ritmica quantomai solida ed affidabile, dall’incedere paragonabile a quello di una locomotiva.
La shuffle blues “Pride and Joy” è destinato a diventare ben presto un classico della produzione di Mr. Vaughan, mentre “I’m crying”, pur muovendosi sostanzialmente sulle stesse coordinate, (o forse proprio per questo motivo) passa un po’ più inosservato.
Ultima menzione d’onore va’ ad una ritmata e divertente “Mary Had a Little Lamb” (Buddy Guy) e all’ottima “Tell Me” (Chester Burnett), pezzo quest’ultimo che si avvale di una della migliori prestazioni vocali di Stevie dell’intero platter.
Concludendo, ci troviamo di fronte ad un vero classico del blues contemporaneo, acquisto assolutamente obbligato per ogni vero appassionato del genere, non solo per la qualità intrinseca della musica in esso contenuta, ma anche, e soprattutto direi, perché rappresenta la testimonianza forse più spontanea ed autentica del genio di un musicista sublime che, ahi noi, ci ha lasciati troppo presto.