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Questo è uno di quei lavori che ancora ti fanno sperare che non tutto nella musica pop sia stato già detto e sintetizzato; una sensazione, quella del déjà vu, che non per forza dovrebbe condurci tutti sul primo ponte con una pietra al collo sia chiaro, ma che lascia molti tra gli appassionati aprioristicamente diffidenti e disillusi nei confronti della intera produzione musicale a venire. Senza eccedere nell’enfasi possiamo parlare di quest’album come dell’esordio di maggior spessore artistico targato 2006 in Italia, non il miglior debutto probabilmente (perché perfetto non è…), ma quello che mette in mostra una personalità e un talento nella sintesi davvero fuori dal comune e alieni a quella buona parte degli acts nostrani che cercano più o meno consapevolmente rifugio in una “scena” di riferimento (del resto, sono parole loro “L’amour finit vite si on n’a pas le courage”).
Gli El Ghor arrivano dall’ hinterland napoletano, terra musicalmente più che feconda (in ambiti remoti citiamo tra gli ultimi Songs For Ulan e Alea tanto per fare due nomi soltanto) nonostante sia stata fin troppo sottovalutata anche e soprattutto a causa della scarsità di etichette pronte a sostenere le band di maggior talento. Eccezione che conferma la regola la lungimirante Seahorse che intuendone il potenziale artistico li mette prontamente sotto contratto e li colloca sotto l’ala protettiva del produttore Paolo Messere, già all’opera nei Blessed Child Opera.
I quattro ragazzi disegnano paesaggi sempre eleganti e sospesi, un pianoforte e svariati altri tasti in digitale segnano spesso la via per poi essere raggiunto in corsa dalle sincopi di batteria e basso e dal loro avvilupparsi con chitarre che feriscono gentilmente. Ipotizziamo gli ultimi Marlene, quelli con il cuore alla canzone francese e le dita ancora impregnate di elettricità scostante, liberiamo per un giorno un consunto Bertrand Cantat dalle sue prigioni e facciamoci raccontare il Male, quello vero, priviamo Clara della sua patina pop e dell’ironia i Baustelle e proviamo a cucire loro su misura un raffinato abito dreamy post rock, impalpabile come le lacrime dei L’Altra.
Luigi Cozzolino (attivo in proprio come Muhe, in coppia negli Schelè, oltre che incaricato della parte grafica) canta con una voce sofferta, un sussurro consumato, di una sensualità immateriale che lo avvicina in parte a Godano o ad Agnelli nei frangenti più accesi e alterna l’italiano al francese, doppiato dall’altrettanto suggestiva voce di Ilaria, a conferire al tutto maggiore allure poetica. Da brividi di freddo “Cane” e “In segreto alla patria”, melodie di quelle che ti porti avanti per la vita, accese di vibrante lirismo, e non da meno la superba “Nella resa il vanto”. Convincono di meno nei pezzi più aggressivi come “Sans Lumiere”, ancora troppo grezza forse, o negli strumentali come “Algore”, che spezzano eccessivamente la tensione. E proprio forse la lunghezza eccessiva dei pezzi é l’unico limite di questo disco, perfettamente comunicativo e compiuto nei classici quattro minuti e che non necessiterebbe di allungare le partiture per ricreare nei dettagli la propria atmosfera, dato che questo talvolta va a discapito della fruibilità. Solo per questo ci “limitiamo” a definirlo un buon lavoro, certi che, una volta limate alcune incertezze (ovvie per un debutto di rara sintesi espressiva) potranno lasciare definitivamente il proprio sigillo per mezzo di un piccolo grande capolavoro. Vivissimi complimenti.