Delta head + Mr Okkio One man Band: Famolo Strano (Il blues) !


L’incontro ravvicinato tra artista e pubblico è uno degli effetti meno graditi tra quelli che la Grande Democratizzazione nel nome del punk esercitò sul modo di recepire la musica live: troppe primedonne del palcoscenico, che tutt’ora si conciano da novelli Darby Crash, non avrebbero la minima intenzione di starsene di fronte al proprio uditorio se non con quei tre quattro metri di dislivello a proteggerli da qualsivoglia reazione, nel bene e nel male. Chi invece si esibisce, o semplicemente si trova al Duecentoundici di Torino deve accettare il Diktat dell’Eguaglianza Orizzontale, vale a dire: Tu, Artista Venuto dalla Terra Lontana guardi negli occhi il tuo Pubblico Pagante e ti assumi coraggiosamente ogni responsabilità delle robaccia che hai portato qui stasera. E’ con l’ammissione implicita di questo spirito che ci si trova in una poco più di una quarantina, magari spalla a spalla con un C-Max dei Subsonica in disguise, ad applaudire le folli performances di due sedicenti artisti. L’opening (one man) band di casa è, al solito, uno di quei personaggi che stanno sul bilico fra genialità e patologia mentale: chiamasi Mr.Okkio e si presenta con una bollente tuta da apicoltore e un paio di chitarre elettriche a intonarci i suoi modesti patemi d’animo – dato che la serata sembra dedicata al blues del delta – e a martoriare brani altri di disparatissima estrazione. Dal mitico “Catfish Blues” al Battisti di “Supermarket”, parecchie songs passano sotto il macigno dei suoi ampli e della sua vociaccia sguaiata. Il macello s’interrompe solo di tanto in tanto, quando il signor Okkio ritiene opportuno premiare noi altri con il tiro assassino della latta di birra. Dopo un tre quarti d’ora di set, il nostro abbandona la seggiola e un pubblico disorientato ed euforico a sufficienza per accogliere lo show dei Delta Heads. Anche loro non troppo stabili, nel loro My Space -che, per inciso, ha la sezione Friends migliore del Web – si autodefiniscono come un ibrido tra punk, garage e blues, anche se a colpire per prima non è tanto la miscela musicale, quanto la bizzarra apparenza dei nordici due: l’uno che imbraccia una chitarra, l’altro arrampicato su un contrabbasso d’altri tempi, entrambi colla suola sul pedale di una Ludwig (la Doppia Cassa che Lars Ulrich non avrebbe mai immaginato ). Il duo, che ha un immaginario tutto in bianco e nero, come dimostrano le loro faccette pittate da mimi e le improbabili mise, comincia la “piece” distribuendo bastoncini d’incenso fra le primissime file, forse nel tentativo di ricreare un artigianale effetto fumo: ai posti di combattimento, attaccano il ritmo ossessivo di “I Smile at you” e “My Mama was too lazy to pray” in strettissima sequenza e ciò che ne viene fuori assomiglia veramente ad un Robert Johnson accelerato, sebbene qua e là i finnici non disdegnino un paio di sfuriate a ritmo harcore o qualche – lunga – incursione nell’heavy primitivo, modello Sabbath. E poi la musica è soltanto una parte della loro proposta: infatti, ogni volta che dalle casse comincia a gracchiare la filastrocca del Circo, le teste di Delta hanno da inventarsene una nuova. Lanciano coriandoli a tutti, si addentrano fra gli spettatori imboccandoli con caramelle gommose, indossano grottesche maschere di gomma, salgono sui rispettivi sedili ad incitare il pubblico o ad invitarlo a comprare magliette, cappelli e qualsiasi cosa riporti per iscritto il loro nome. Un’esperienza alla stregua dell’avanspettacolo e del non sense dadaista, abbozzata lì per lì, magari improvvisando, comunque senza la benché minima pretesa di essere presi sul serio. E così, dopo aver scapocciato per poco più di un’ora sui loro blues scalcagnati, li vedi di nuovo tra il pubblico a mendicare acquisti con le copie del proprio album fra le mani e ti chiedi come sia possibile racchiudere ciò a cui hai appena assistito su un disco o un qualsiasi supporto digitale. Cambiano i tempi, migliorano le tecniche, ma certa “musica” continua a poter vivere soltanto…dal vivo.