Melke – Melke

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Enzo è molto giovane e al posto della diamonica e del famigerato flauto delle medie qualcuno fuori da scuola deve avergli piazzato tra le mani laptop e Cubase. A casa gli avevano certamente detto di non accettare caramelle, ma degli effetti nefasti di questi marchingegni pestiferi non era stato ammonito, povera creatura. Viene folgorato da Kim Hiorthoy fino a dedicargli il proprio progetto sonoro e cresce a pane e glitch tra Tarwater, Mum e figli degeneri. Eccolo al primo demo e forse anche alla prima recensione il signorino; che dire, il talento alle macchine è una constatazione spontanea, tra arditi accartocciamenti ritmici e carillon incantati, ninne nanne e algoritmi, terra e cieli di plexiglass. Sopraffino cesellatore, fuor d’ogni dubbio e credo di non averne mai conosciuti di così dotati in rapporto all’età. Il problema è che i pezzi partono in quarta disegnando scenari di somma grazia e poi si ingolfano su un gingillo melodico reiterato a dismisura e a parte gli episodi più rapidi e scalcianti (come “Mahiorane Avenue” e “Blood’s lake”) l’impressione è che l’autore sia troppo compiaciuto della propria abilità per scavare nell’anima dei propri brani. Il suono è perfetto, le canzoni deficitarie, se rendo l’idea. E per quanto graziose le scenografie sono stralci di cose che abbiamo ascoltato ed adorato nei lavori scelti di Aphex Twin, nell’ambient bucolica dei primi Boards Of Canada, tra i ritmi spezzati e feriti di Four Tet, nel grembo materno di Lullatone. Ora basta guardarsi allo specchio, quel talento ha bisogno di canzoni vere sulle quali stendersi come un drappo dorato e mostrarsi al mondo. Voglio credere che tu lo faccia presto, caro.