Porcupine Tree – Fear Of A Blank Planet

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E’ uscito il nuovo disco dei Porcupine Tree. Sta a voi decidere come ascoltarlo, se subirlo oppure se scrutarlo. Nella prima ipotesi, vi troverete di fronte ad un disco perfetto, suonato da professionisti impeccabili sotto ogni aspetto. Qualsiasi considerazione su presunte virate metalliche o alcune scelte commerciali che hanno portato i Porcupine Tree ad accasarsi presso la Roadrunner, in questo ambito si fanno del tutto superflue. Il disco è per chi lo subisce semplicemente il nuovo disco dei Porcupine Tree, pertanto ottimo. Fine delle trasmissioni.

Se non amate subire gli ascolti ma al contrario siete soliti farvi delle domande e cercare delle risposte, allora il nuovo album dei Porcupine Tree potrebbe diventare la cosa più inutile in cui imbattersi. Wilson lo ha chiamato ‘Fear Of A Blank Planet’, riferendosi al suo rammarico per le nuove generazioni di ragazzi, a sua detta vuoti, senza stimoli, valori né sogni, figli della non cultura di MTV, assuefatti dalle dinamiche dei reality shows e ricurvi sulle piattaforme di gioco a sprecare la loro esistenza. Nonostante il sottoscritto condivida gli spunti ideologici, in tutta franchezza, difficilmente questo album darà loro la salvezza da questi vuoti esistenziali o le motivazioni per trovare nella buona musica certe vie di fuga. Il perché è presto detto.
E’ ormai ovvio che l’aspetto artistico per Steven Wilson sia diventato qualcosa di secondario rispetto alla sua attività di produttore. Per costui oggi, a mio modo di vedere, nella realizzazione di un disco contano di più gli aspetti formali, commerciali e tecnici. Volendo utilizzare un paragone, oggi Sir Wilson è più vicino ad un Bob Ezrin che ad un Roger Waters. Con tutto ciò che questo comporta: grande attenzione per i suoni (straordinari), ammiccamenti verso sonorità moderne largamente apprezzate, scarsa e sciagurata inclinazione verso certa composizione che per i Porcupine Tree sta diventando un’area virtuale per noiosissimi clinic.
Inoltre: si sono fatti del tutto evanescenti gli spazi ambient in cui i nostri amavano creare degli “stargate” in proiezione interstellare, a favore di molto muro metallico che per qualche tempo ha permesso ai nostri di essere addirittura in scaletta al Gods of Metal, giustificando peraltro la loro entrata nella grande famiglia Roadrunner, accanto a nomi leggendari come Sepultura, Machine Head e Megadeth. Roba che se ce l’avessero detta ai tempi di “Coma Divine” saremmo morti dal ridere. In realtà da ridere c’è ben poco, ed i minimi elementi riconducibili al loro glorioso passato si sono fatti piatti ed irrilevanti. Salvo “My ashes” e il ritornello di “Sentimental”, il resto è noia cosmica. A cominciare dai 17 minuti di “Anesthetize”, in cui compare un intermezzo thrash metal degno dei migliori Anthrax. Complimenti. Questi i pochi contenuti di una musica che non esiste, in virtù della quale pare più indicato il titolo ‘Fear of a Blank Record’.