Fou – I Nostri Costosi Hobby Feticisti (EP)

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Come fare jogging su Viale Monza alle sei della sera; i polmoni ti stanno esplodendo di polveri sottili ma con l’accompagnamento giusto nelle orecchie puoi pensare che sia il paesaggio urbano a mozzarti il fiato. Chi non vive a Milano potrà forse non cogliere per filo e per segno tutte le citazioni esplicite e sottotraccia di un EP che pare dedicato alla metropoli e ai suoi angoli meno celebrati (il basso impero delle aree deliziosamente abbandonate a se stesse, la frenetica inconsistenza del commercio “cheap” e la leggenda metropolitana della città cosmopolita), ma non di meno potrà convenire con noi sul fatto che quelli in oggetto siano tra le più azzeccate e sapide liriche scritte negli ultimi tempi nel panorama indipendente italiano. La band, formata da sei musicisti, si forma nel 2004 da qualche parte attorno al capoluogo lombardo (con lo scopo, sono parole loro, di “raccontare storie di normalità parossistica”…) e giunge soltanto adesso alla registrazione di un EP autoprodotto che nelle intenzioni del gruppo dovrebbe preludere ad una non troppo remota uscita ufficiale. E sarebbe davvero il caso che le etichette nostrane drizzassero le antenne davanti ad una proposta musicale tanto matura, affabile e davvero riuscita. Voce maschile e femminile quasi sempre all’unisono, entrambe su toni medi, vagamente narcotiche e distaccate (un po’ Baustelle e un po’ Stereo Total) per una ciambella davvero riuscita col buco; la musica nel frattempo si attesta su croccanti frequenze indie rock, fra scanzonati ritmi alla New Pornographers e chitarre d’impronta Sonic Youth e Sleater Kinney ultima maniera (corpo noise, faccia pop). Pur non perdendosi in ciance o sbrodolamenti i pezzi denotano una struttura piuttosto ricercata e mai banale, con stacchi improvvisi a separare le strofe da ritornelli a presa rapida. ”Ultimo kebab nel quartiere Isola” ed “Estinzione di un magnete” sono i pezzi dal tiro più propriamente rock, la salmodiante “Tracce” deve qualcosa ai C.S.I., mentre “Free Chupito in Regomir” è un’isterica sincope ritmica che si stempera in una elegante melodia al chiaro di luna, per poi chiudere con la melanconia di “Managua”. Buonissime notizie per quello che alla faccia di etichette e sottoetichette ci azzardiamo a chiamare semplicemente rock indipendente; è su band come questa, di personalità, coraggio, spessore e tagliente ironia che vorremmo puntare per i mesi a venire. Il 2006 ci ha regalato gli El Ghor, chissà che non arrivi all’album di debutto ufficiale un’altra luminosissima stella tricolore.

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