Getting to know you… I Drones, questi sconosciuti

  • Il tour dei Drones, band australiana rock-blues (ma attenzione alle definizioni, con il relativo pericolo “camicia di forza” che esse producono) ha fatto tappa al Circolo degli Artisti il 24 Maggio. In una giornata afosa, in bilico tra solleone e temporale, il cantante Gareth Liddiard e il chitarrista Dan Luscombe si sono intrattenuti in una conversazione confidenziale. Avvertenza: non aspettatevi una rigida intervista, quanto piuttosto uno scambio di battute tra abitanti di continenti diversi, che, con il pretesto di parlare di musica, hanno confrontato le proprie esperienze in uno scambio di domande reciproco. D’altronde, rock semplice e onesto dei Drones non può che essere figlio di “genitori” altrettanto semplici e disponibili.

    Rocklab: Benvenuti a Roma! Vedendo le tappe del vostro corrente tour europeo ho notato che farete molte date nel Vecchio Continente. Sarà una buona occasione per trovare un luogo appartato per registrare il nuovo album?

  • Gareth: Dovremmo scrivere delle nuove canzoni prima.
  • R: Non avete ancora nuovi pezzi, d’altronde con questo tour presentate il vostro ultimo album “Gala Mill” (uscito nel settembre 2006), che è stato registrato in Tasmania, un’isola a sud dell’Australia, non in uno studio, appunto, ma in una fattoria. Cosa potete dirci sull’atmosfera che si respirava al momento?
  • G: Dan non faceva parte della band al momento, si è aggregato in seguito. E’ stata una esperienza rilassante, quasi come fosse una vacanza. Non sembrava di registrare un album in effetti.
  • R: Le canzoni erano già pronte?
  • G: Solo in parte, circa la metà.
  • R: Quindi l’ambientazione ha influenzato il songwriting?
  • G: E’ un album più calmo, non urlato. In un certo senso è meno rock & roll, d’altra parte eravamo in mezzo alla campagna, con un fiumiciattolo nelle vicinanze. La musica veniva fuori stando seduti in un posto bellissimo, quindi l’umore del disco è decisamente dovuto alla location di registrazione.
  • R: L’Oceano era distante, quindi niente surf per rilassarsi?
  • Dan: Non tutti gli australiani surfano!
  • R: Primo stereotipo abbattuto. Vi siete portati qualcosa da ascoltare nei tempi morti?
  • G: No, a lungo andare quasi ti stanchi della musica a fine giornata.
  • R: Quindi se vogliamo parlare di influenze sul vostro sound, cosa ci potete dire?
  • D: Beh, ascoltiamo e siamo ispirati da molte band. Nel corso del tour siamo stati fortunati nell’aver incontrato un nostro mito a Londra: Alan Vega. Era il cantante dei Suicide, uno dei primi gruppi elettronici di New York negli Anni ’70, roba strana e particolare. Abbiamo suonato nello stesso festival, All Tomorrow’s Parties, e quando lo abbiamo visto ci siamo comportati come degli adolescenti, chiedendo l’autografo e facendo le foto assieme.
  • R: A proposito dell’ATP, voi avete suonato nella serata curata dai Dirty Three. Oggi aprite per loro: è una coincidenza o vi hanno chiamato da supporto?
  • D: Siamo passati in Italia nello stesso periodo, suonando quasi negli stessi posti ma in giornate diverse. Roma è l’unica città dove le date coincidono. Questo è il motivo di questa serata australiana al Circolo.
  • R: Nelle vostre dichiarazioni riguardo “Gala Mill” è emersa l’intenzione di fare musica australiana, che si differenziasse dall’amalgama dei gruppi anglofoni. Cosa è tipicamente Aussie nel vostro sound?
  • D: Alcune band hanno un sound che può venire solo dall’Australia, mentre altre si appiattiscono su cliché americani o britannici, copiandone anche gli accenti. Noi sicuramente abbiamo queste influenze, ma è importante che gli artisti australiani siano coscienti e facciano emergere ciò che li distingue dal resto del mondo anglofono.

    G: La nostra non è stata una chiara intenzione di fare un album “Aussie”, semplicemente non abbiamo potuto fare a meno di distinguerci a nostro modo.

    D: Prendi come esempio la “Bush Music”, che rappresenta il folklore del nostro paese. Riprende in parte la tradizione country americana, ma ha quel sapore unico che può venire solo da Down Under, dalla terra dei canguri.

  • R: Ipotizziamo io sia un ascoltare medio che conosce solo nomi di spicco quali Silverchair, Jet, Natalie Imbruglia. Come mi potreste descrivere la scena australiana?
  • G: Hai fatto tutti nomi commerciali, che fanno parte di un contesto prevedibile. C’è anche una scena underground che va avanti dagli Anni ’70 o anche prima, con un suono più grezzo e più rumoroso.
  • R: E voi come vi collocate in questo contesto?
  • D: Facciamo parte della scena underground sicuramente, non vogliamo essere percepiti come un prodotto patinato e pronto a essere consumato, come i nomi già citati. Per capire appieno la nostra musica ci deve essere uno sforzo da parte dell’ascoltatore, ma anche da parte nostra in quanto musicisti.
  • R: Però con l’ultimo album avete avuto un grande riscontro di pubblico nel vostro Paese.
  • G: Non siamo certo la band più famosa, ma neanche sconosciuti. Siamo musicisti professionisti e viviamo di quel che facciamo.
  • R: C’è un motivo se emergono i soliti nomi dall’Australia, quando invece c’è un sottosuolo prolifico di artisti meno conosciuti?
  • D: Per prima cosa siamo davvero molto distanti geograficamente e non è affatto semplice farsi conoscere se non attraverso Internet e cercando di proposito, o trovando casualmente ciò che piace.
  • R: Come vi piacerebbe essere contestualizzati, o se vogliamo, definiti?
  • D: La cosa miglior è cercare di non darsi una definizione.

    G: Come si possono definire i Suicide, ma anche Bob Dylan? E’ solo rock & roll, non è jazz di sicuro, solo rock…siamo un po’ strani, ma non decisamente estremi.

    D: Si tratta principalmente di canzoni, non di come abbiamo i capelli o di come ci vestiamo. Le nostre canzoni sono importanti per tutti i ragazzi della band. Una buona canzone può restare anche per centinaia di anni ed è quello il nostro approccio.

  • R: Esprimendovi in inglese, è naturale per voi avere un pubblico più ampio. E’ difficile emergere nella realtà britannica o americana con una vostra identità?
  • G: C’è molta competizione in effetti. Nel Regno Unito sono abituati a sonorità più smussate, è una realtà conservatrice dove non c’è molto spazio per musica spigolosa e rumorosa. Negli Stati Uniti invece piace la musica più dura e ruvida, è quindi l’ambiente più affine a noi. Ma si è in competizione con migliaia di band.

    D. Ci sono oggi molte più band ora di quante ce ne fossero 20 anni fa, grazie anche a comunità quali MySpace che assicurano una maggiore diffusione. Ma ci sono anche dei lati negativi, visto che si può parlare di sovrabbondanza di musica: puoi scegliere cosa ascoltare ma devi fare una scelta tra miloni di band. Il pubblico deve davvero cercarti.

    G: E’ totalmente diverso da quando decenni fa ti ritagliavi un articolo su un gruppo e lo portavi al negozio di musica e il disco arrivava dopo sei mesi. Era difficile allora emergere, lo è ancora adesso ma in modalità opposte.

  • R: E la dimensione live aiuta in questo senso.
  • G: Si, non c’è modo migliore per farsi conoscere che andare in tour. Apri il giornale e vedi chi suona nella tua città quella sera, e magari scopri qualcosa di veramente interessante in modo casuale.
  • R: Con quale spirito venite quindi in Europa? Per conquistarla?
  • D: Per vedere il Colosseo e basta! Sai, dopo aver fatto un tour in Australia hai voglia di partire, andartene e vedere il mondo.

    G: Si, è molto piccola. Ci sono in pratica 5 grandi città.

    D: E devi viaggiare distanze enormi perché sono lontane l’una dall’altra.

    G: Quando ci muovevamo con il pullman si facevano viaggi di circa 10 ore. Ora fortunatamente ci possiamo permettere viaggi in aereo.

    D: Hai molto tempo per pensare durante i tour australiani, stando seduto per 10-12 ore. E ciò è un bene a volte per alcune band perché è lì che capisci veramente cosa vuol dire fare un lavoro del genere e quali sono i “costi”. Per questo molti gruppi scoppiano durante i tour, perché non erano pronti.

    G: E’ un duro lavoro (ride), non sono rari litigi in quei momenti. Ma d’altra parte si ascolta tantissima musica e questo è sicuramente positivo.

  • R: Riuscite anche a comporre nuovi pezzi in quei momenti?
  • G: Non proprio, sei troppo stanco, e il rumore del motore non è certo conciliante.
  • R: Non è primo tour europeo, vero?
  • G: E’ il quarto, ma è la prima volta che veniamo in Italia e a Roma…ma non siamo riusciti a vedere niente a parte questo posto, bello d’altra parte. Quasi quasi cancelliamo il resto del tour e stiamo a Roma per qualche giorno…per fare anche un’orgia semmai…(ride)
  • R: Parlando dell’Italia, il mercato musicale nostrano non si distingue certo per dinamismo, per voglia di innovarsi e distaccarsi nettamente dalla tradizione melodica. I nomi di spicco sono sempre gli stessi…
  • D: Sapevamo in parte di questa situazione, ma quali sono i motivi? Il pubblico non supporta gli artisti, non ci sono aiuti finanziari governativi? Ora sono io a intervistare te…ma sono curioso.
  • R: La musica italiana ha una lunga tradizione melodica, molto radicata che rappresenta la parte preponderante del mercato. Se si parla di festival in Italia, il primo che viene in mente è il Festival di Sanremo, che non è esattamente il tipo di evento a cui siete abituati.
  • D: Come si esprimono allora i ragazzi? Cosa fanno in questo contesto?
  • R: Ci sono ovviamente spunti a livello locale, ma è un dato significativo che di fatto molti gruppi si limitino a fare le cover-band. C’è anche un problema “culturale” se vogliamo: è presente nell’immaginario di tutti la tipica situazione di un ragazzo che dice ai propri genitori di voler intraprendere la carriera musicale, con la solita risposta: “Ma trovati un lavoro vero”.
  • D: Ma ciò è molto strano, perché tantissime menti creative sono venute nel corso dei secoli da questa terra, arricchendo il mondo artistico. Roma stessa era una città all’avanguardia 2000 anni fa.
  • R: E’ questo il problema, i residui di una mentalità “classicista” rappresentano un grande patrimonio che però è spesso di ingombro, precludendo a volte spinte di modernizzazione.
  • D: Questa è la differenza maggiore con il nostro Paese. L’Australia è una nazione giovane, ha circa 370 anni e stiamo ancora costruendo una identità nazionale dalle basi. Abbiamo una responsabilità in questo processo.

    G: Non abbiamo una tradizione e pian piano la stiamo creando.

    D: E chissà, forse una piccola rock & roll band può essere utile in tal senso (tono ironico).

  • R: Conoscete qualche artista italiano?
  • G: Questa è difficile…I Tre Tenori forse? Ah no, uno era spagnolo. Il Divo forse?
  • R: Il Divo? Non mi pare di conoscerlo.
  • D: Julio Iglesias? Ah no è spagnolo anche lui…beh dicci qualche nome allora.
  • R: Nomi di gruppi italiani? Beh potrei farvi la lista dei soliti noti che spopolano in Sud e Nord America e della musica mainstream. Preso alla sprovvista non mi viene in mente molto…
  • D: Se non li sai tu, come possiamo conoscerli noi? (ride) Sarei curioso però di conoscere un gruppo rock & roll italiano.

    G: Te ne posso dire io uno: i Muppets’ Suicide, sono una cover band dei Guns’n’Roses…l’ho letto su un manifesto ieri sera. Che nome strano!

  • R: Stando a Roma, il primo gruppo che mi viene in mente sono gli Zu, band sperimentale jazz-core. Hanno collaborato con Patton, sono quindi molto particolari. Apprezzo anche gli Afterhours, una rock band che si è ritagliata un suo pubblico, conoscete?
  • G: Afterhours? C’è anche un gruppo australiano che si chiama così.
  • R: Avete suonato quest’anno al Big Day Out in Australia e avete partecipato ad altri festival europei. Avete notato qualche differenza, anche a livello di pubblico?
  • G: L’unico grande festival europeo a cui abbiamo partecipato è stato il Primavera, a Barcellona.
    Dal punto di vista della band, nei festival europei si è trattati molto bene: al Primavera eravamo in un hotel a quattro stelle, si assicuravano che tutto andasse bene e che ci trovassimo a nostro agio. In Australia di solito non ci procurano un posto dove dormire, non ci danno cibo e neanche l’alcool per riscaldare l’ambiente.

    D: Ovviamente quando ricevi certe attenzioni è naturale ripagare con una buona prestazione sul palco.

  • R: Che aspettative avete da questo tour europeo? Riuscirete a trovare maggiore spazio per la vostra musica e ad ampliare il vostro pubblico?
  • G: Ogni volta che torniamo è sempre meglio, c’è più gente che ci segue e i concerti sono sempre più pieni.
  • R: Una domanda su “Shark fin Blues” che si trova sul vostro primo album “Wait Long By The River & The Bodies Of Your Enemies Will Float By”. E’ una canzone i cui testi portano alla mente opere come “Moby Dick” e “Rhyme Of an Ancient Mariner”. Sono stati per te, Gareth, fonte di ispirazione?
  • G: “No, anche perché non ho letto nessuno dei due. Molti hanno accostato la canzone all’opera di Coleridge ma non era mia intenzione fare un omaggio. D’altra parte quando si canta di pesci e ami non è possibile evitare certi paragoni (ride)
  • R: Per chiudere, considerando cosa è successo dopo l’uscita del vostro primo album, credete che valga la pena aspettare ai bordi del fiume i cadaveri dei nemici?
  • G: (Ride) Beh si tratta di un proverbio Indù…E’ un approccio passivo e non aggressivo alla vita che ho applicato in prima persona. Ho avuto nemici in altre band che ormai sono scoppiate e non suonano più, mentre io continuo a divertirmi col mio lavoro e ad ogni concerto nostro ci sono 2000 persone. “Success is the best revenge”, continuo ad andare avanti senza curarmi di chi mi vuole mettermi i bastoni tra le ruote.
  • R: Visti i toni confidenziali, ultimissima domanda eno-gastronomica: negli ultimi anni si sono affacciati nelle classifiche mondiali molti vini australiani, vini corposi e gradevoli, a detta degli esperti. Avete qualche suggerimento a riguardo?
  • D: E’ vero, ultimamente si trovano vini molto buoni, in particolare i vini rossi. Se dovessi suggerire un produttore, farei il nome dei Brown Brothers.
  • R: Me lo segno, grazie mille e buon concerto!
  • Le foto sono di Daniele Bianchi – www.concertinalive.it