Danny Cohen – Shades of Dorian Gray

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Se come leggenda vuole Danny Cohen ha davvero dormito per quasi quarant’anni, chissà quali stralunati sogni (e grandguignoleschi incubi..) avrà mai partorito la mente di quest’uomo; uno che tanto per dirne un paio afferma tra il serio e il faceto di avere inventato il punk nel 1961 o giù di lì, ai tempi del college, e che arriva al disco di debutto a cinquant’anni suonati, quasi implorato dagli amici John Zorn e Tom Waits. Giunto finalmente al terzo album vero e proprio, su quella Anti che ha avuto il coraggio e la lungimiranza di puntare davvero sul talento del “ragazzo” nonostante i non eccelsi risultati raccolti con il primo lavoro, conferma una volta di più il suo status di malfermo gigante della canzone d’autore contemporanea, in forza di una penna sempre più vorticosa e vorace e di una gola che sa abbandonare la cartavetra, per ammantarsi ora di seta, ora di vesta lisa e logora per l’usura del tempo. Diversi gli strumentisti di vaglia coinvolti nella realizzazione dell’opera; grandi professionisti pronti a trasformarsi in manovalanza spiccia sotto la perentoria guida del capomastro; un organo che avvolge e ipnotizza (presenza sottile ma incalzante), trombe e tromboni da marching band del dì di festa (ma colti nel dopo festa, quando qualcuno ha bevuto troppo e si è addormentato e gli altri inciampano perché la luce è fioca e gli occhi arrossati…), un armonica, percussioni voodoo e lattoneria di scarto. Danny sa essere maledettamente profano e prosaico quando la bile ribolle e il corpo si ribella alla mente (“Devil’s Brat”, “Avian Blues”, “Confection Of Bullshit”, una stilettata “politica”…), ma un attimo dopo è rannicchiato in un angolo, spirito contemplativo di fronte alle stelle e al mistero della vita (porgete l’orecchio al desolato sussurro di “Cold Snap Conundrum”, o alle superfici cangianti di “Drawing in the Dark” e ditemi se non sono Wyatt e Barrett quegli spiriti che vi appaiono sullo sfondo).
Non è folk e non è blues, non può essere pop né jazz e non si sporca con la materia rock. E’ l’esperienza di un individuo, di un’anima ancora grande e aperta alle “voci”, quelle dal di dentro e quelle che da distanze siderali lo richiamano a se: un individuo, se ha ancora un senso parlarne nella civiltà del consumo.
E’ un disco talmente denso e ricco di significati che a parlarne si fa peccato e si fatica parecchio. Intraducibile, più che probabilmente. E non sarà un caso del destino se i più robusti scossoni alle nostre coscienze giungono da soggetti “non allineati”, irregolari ed intraducibili appunto ( loro malgrado, spesso..) raminghi, come l’imprescindibile Daniel Johnston per fare un nome illustre.
Converrà affidarsi alla tecnologia e sperare che un giorno quei sogni di cui si parlava in apertura ci vengano concessi come extra in una futura deluxe edition, rigorosamente “in black and white”