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Partire dalla fine per raccontare una storia, quella di Mr. Man. La fine: Haiku. Un brano potente, evocativo e personale. Un pezzo di quelli che bisogna conquistarsi ascoltando anche il resto. E quel resto non è brutto, capitemi. Però è un po’ come arrivare in cima: la salita ha il suo fascino, a volte vedi dei bei panorami, a volte ti diverti lungo il viaggio. Ma rimane faticosa e pesante. Invece Haiku, con i suoi quasi sei minuti strumentali di semplice melodia, è la visione totale che si vede solo dall’alto, pacificatrice, portatrice di quella idea esprimibile solo con “Ne è valsa la pena”. Sì perché se l’accoppiata Take off / Take it è carina e rappresenta un buon inizio, risente anche di una poca incisività, e questo purtroppo è la caratteristica distintiva di un po’ tutto il disco: 10 tracce impregnate di un brit-rock oscuro e melodico che nelle chitarre cela il suo input d’interesse e nell’amore per un certo rock anni ’80 la sua principale fascinazione. Le linee vocali vorrebbero affascinare e abbracciare l’ascoltatore ma spesso questo abbraccio è freddo è formale e va ad intaccare un ottimo lavoro fatto sugli arrangiamenti (meno quello sui suoni). Meglio, molto meglio infatti quando questi bolognesi danno spazio alle parti musicali soffuse e intime (per esempio Shake your shape, davvero niente male, oppure Come on che probabilmente sarebbe potuta diventare un must con meno voce, o con una diversa, chissà) o quando si buttano su pezzi senza pensarci troppo (Plastic man), senza voler essere a tutti i costi cerebrali e ricercati. Che poi, restando in tema di cerebralismi inutili ma che fanno tanto figo e gruppo colto, i JoyCut definiscono la loro musica (o qualcuno l’ha fatto e loro ci tengono) “rock sincretico di matrice suburbana”. Ecco, vedete voi.
Un lavoro che cela luci ed ombre, spunti interessanti e cali tendenti alla noia. Un lavoro da usare come trampolino per salire più in alto. Si può fare di meglio. Anzi, si deve.