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Non è mai stato semplice operare distinzioni fra vittime e carnefici nell’immaginario dei Baustelle: dallo scorso ‘La Malavita’, quando giocavano a guardie e ladri e cantavano di adolescenti inquieti, sono cambiate le tematiche ma non il gusto di mischiare le carte in tavola. Chi infatti (tenente Colombo a parte) potrebbe assolvere o condannare con certezza l’aspetto pericolosamente perbene degli “avvocati ricchi di Bel Air” o quello modì dei vari poeti che fanno galleria in Baudelaire?
Come lo spesso invocato Dio, che in Alfredo chiama a raccolta luci e ombre dell’Italia Settanta, così Bianconi guarda i suoi personaggi dall’alto, senza giudicarli ma limitandosi a raccontarli, nella migliore delle tradizioni cantautorali.
In termini musicali, l’ingrato compito di mettere assieme diavolo e acqua santa tocca al produttore Carlo Rossi, autore di un mirabile lavoro “sintetico”: non soltanto per via dell’effettiva presenza dei synth, ma anzitutto per aver saputo coniugare il rigoroso impianto new wave della band alle esigenze e agli appetiti della canzone nostrana. La propria parte l’hanno fatta pure le sapienti orchestrazioni di fiati ed archi, affidate ad Alessandro Alessandroni in persona ossia colui che prestò il proprio indimenticabile fischio a quei film sergioleonini che in Spaghetti Western diventano metafora per tutti i luoghi comuni italici.
E proprio come in un film, c’è lo spazio per innumerevoli cammei, fra le “partecipazioni amichevoli” e quelle “straordinarie”, qual è ad esempio la presenza di Mulatu Astatke, grande jazzista africano che fa per l’appunto la sua comparsata in Ethiopia (uno strumentale, curiosamente vicino alle atmosfere poliziottesche del disco precedente).
Varietà e ricchezza di elementi suggeriscono una concezione di “canzone” che risale ai tempi in cui, perfino per i 45 giri da jukebox estivo, all’arrangiamento si alternavano nomi come Ennio Morricone o Louis Bacalov.
Di tanto in tanto, soprattutto negli spazi affidati a Rachele, si esagera nel concedersi ai capricci del belcanto e allora fa capolino (ahinoi!) l’altra e tristemente più nota faccia della “leggera” italiana, quella Sanremese: succede nelle zuppe orchestrali di La vita va e anche in Aeroplano, che tra un sussurrato e una rima baciata impregna l’aria dell’insopportabile zucchero festivaliero, già preoccupantemente vicino.
Con tanta carne al fuoco questo non è comunque un prezzo troppo alto da pagare, se abbiamo ben inteso dove questi furbastri vogliono andare a parare: già nell’estate di ventisette anni fa infatti, un signore che i Baustelle devono conoscere bene – almeno a giudicare dai loro testi multiriferimento – decise di salutare il buio impero degli Ottanta facendo incrociare i destini della prima new wave minimale di radice Eniana con quelli della canzonetta balneare. I risultati contarono un hit album, diciotto settimane in cima alla classifica, oltre un milione di copie vendute e altrettante bocche che, da sotto gli ombrelloni-oni-oni, canticchiavano incoscienti al “mare, mare, mare” di “voler annegare” di portarli “lontano a naufragare…”.
Oggi, alle porte di un periodo altrettanto oscuro, potrebbe sortire un effetto altrettanto surreale il ritornello orecchiabile di una Il Liberismo ha i giorni contati, se solo imboccasse la retta via del successo radiofonico: questa, perlomeno, è la nostra Preghiera.