Afterhours: Milano è una mezza verità

Chi ha già visto un concerto degli Afterhours sa cosa aspettarsi. E anche stavolta non è da meno. Sì perché purtroppo (o per fortuna? No, no, purtroppo in questo caso) la band milanese è sempre uguale a se stessa. Cambiano alcuni piccoli particolari: una volta c’era Xabier Iriondo e Andrea Viti, adesso Roberto Dell’era e Enrico Gabrielli. Una volta l’ospite di lusso era Greg Dulli, una volta Mark Lanegan, adesso John Parish. Per stasera Dario Ciffo poi chissà visto che per il violinista si tratta dell’ultimo concerto. Cambia qualche arrangiamento ma sai già cosa farà Manuel durante La verità che ricordavo. Cambia di poco il numero degli spettatori. Per il resto tutto uguale.
Tanta gente qui al Palasharp, c’è una lunga coda e si respira aria di evento. La band di Agnelli che suona a Milano è un po’ come il Milan che gioca a San Siro in una domenica di campionato, quindi evento non è. Ma la gente non lo sa e riempie il palazzetto.
Poi inizia lo spettacolo, il gruppo è più in palla di altre volte ma diciamolo: è il solito loro concerto, un altro concerto da grande band rock, con tutti i correlati positivi e negativi che questa affermazione ne consegue. Dal punto di vista musicale le versioni leggermente riarrangate dei pezzi vecchi non suonano affatto male, le canzoni nuove sono invece quello che sono, certamente non brutte ma nemmeno convincenti al 100%, composizioni frutto di un passaggio non ancora completato tra quello che gli Afterhours erano e quello che vorrebbero essere.
L’ora di concerto e i bis. Gia visti.
Voglio una pelle splendida cantata tra il pubblico. Già vista.
Cortez the killer cantata con Cesare Basile. Già vista.
La versione inutile e lenta di Non sono immaginario. Putroppo già vista e sentita.
Agnelli che però la dedica ad un difensore scarsino. Ah no, questo mi mancava.
Un concertone rock. Il solito. Oppure, se vogliamo cercare analogie in sintonia con la scenografia (che ricalca ne più ne meno la copertina di ‘I milanesi ammazzano il sabato’) quasi tutte le volte che ho assistito ad un loro concerto ho accusato i sintomi che potremmo definire “del pranzo di nozze”: stanchezza e pesantezza dovuta al troppo nonostante piatti suculenti e le due cover oramai inserite in repertorio (l’altra è For what is worth). Il film è lo stesso. Un bel film, niente da dire. Solo che dopo la diciassettesima volta che lo vedi è sicuramente meno divertente e sai già come va a finire. Perché allora non spegnere il televisore alla fine del primo tempo?
Dopo 4 dischi in inglese, 6 in italiano, dopo un live e anni di esperienza io mi sento oramai in dovere di pretendere qualcosa di più.

Foto di M** e Elisabetta Bellosta