Oceansize – Frames

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E’ un post rock che deve molto alle partiture preziose e atmosferiche dei Mogwai, ovviamente, ma che incede e avanza con sicurezza anche su quel terreno in cui molti esponenti del doom o del core atmosferico hanno affondato le scarpe, perdendo inesorabilmente freschezza ed ispirazione. E da dove alcuni di costoro perdevano l’attitudine core (e alcuni fan), gli Oceansize ripartono. E da qui riscoprono il core, ma un core nuovo e dalle venature melodiche, di cui la voce del frontman (tra l’altro anche chitarrista capace e fantasioso) già anticipa voglie e stilemi.
E seppure mi venga da dire che in questo album le venature emo siano più percepibili, ritengo potrebbe essere meglio non dirlo, per non disturbare il giudizio di chi giustamente non ce le vede proprio, come pure non vedrebbe il pop nell’ultimo lavoro dei Dillinger Escape Plan. E perché in fondo qui c’è molto di diverso. Innanzi tutto questi qui sono inglesi, e quindi l’eleganza non gliela si può negare, come pure la capacità di essere oscuri senza mai cadere nel retorico o nel prevedibile, per poi sfuriare epici come non mai (come da noi solo qualche giardino di mirò o super elastic bubble plastic è riuscito a dovere). Roba da brividi. E poi c’è una fortissima carica noise, la reiterazione, le chitarre “a lavatrice” che girano e rigirano su pattern ispiratissimi, e un brano dietro all’altro a inanellare meraviglia dopo meraviglia. E qua e là compaiono anche riferimenti agli stessi territori dei Mew o degli At The Drive In, ma con la perizia e la complessità delle strutture di una band progressive. Se siete degli ascoltatori con le orecchie e le meningi ben affilate, allora questo è il vostro disco. Ho sempre diffidato di chi vede la genialità per forza nello sconosciuto o nello scarsamente noto, in quanto ho sempre creduto che la mancanza di fama non debba essere necessariamente misura di purezza di intenzioni, o in effetti di capacità artistica. Ma se questo può essere vero, d’altra parte a volte capita che, grazie ai meccanismi tritacarne dell’industria discografica attuale, che pare aver ingranato la quinta verso un vuoto spinto di idee e di niente, una gran messe di persone non avrà mai nemmeno avuto notizia di questi cinque genietti (tranne forse che per il loro singolo Meredith), ne’ di questo mezzo capolavoro. E vabbé, è anche questo il bello del gioco. Ma gli ultimi quattro minuti e venti di Trail of Fire valgono tutta la discografia di Wombats, Horrors, Tokyo Police Club, The Fratellis, the Bravery e Kaiser Chiefs messi insieme, almeno per quanto mi riguarda. Se poi volete andare a ballare, beh, allora è un’altra storia.