Julianna Barwick – Will

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Era l’agosto di tre anni fa quando Julianna Barwick si palesò prepotentemente – con leggiadria sempre invidiabile – alle masse dell’ambient e delle sue derivazioni maggiormente sperimentali, sebbene in direzione classicistica. Nepenthe, quarto album della sua carriera (contando anche la collaborazione prima con Ikue Mori e Helado Negro poi), fu infatti quello con il quale poté conquistarsi una posizione di massimo grado nel genere, immettendovisi per mezzo di un prospettiva critica, privata, luminosa – il singolo One Half racchiude tutto questo e lo fa scomponendosi in voci sovrapposte, archi tremanti e crescendi emotivi di sicura presa. Piano piano, sottovoce, come piace a noi, direbbe il nostro amico della notte, l’unico.

I grew up singing in church in a congregation and then I was in school choirs […] so that particular sound and emotion that’s achieved by a bunch of humans singing together is just one of my absolute favourite sounds. I think that’s why it clicked when I first started messing around with loops. I was able to create that kind of layered, cavernous, reverberant, communal sound all on my own.

In quella che è stata la settimana delle grandi uscite discografiche del 2016, la nostra cantautrice (termine poco consono, in realtà) della Louisiana produce un disco ancora più sofisticato, sempre più aperto rispetto alle sue precedenti produzioni; dal respiro geografico delle vaste distese, dalle difficili freddure delle montagne meglio temperate. È come ritrovarsi nel mantice di una fisarmonica, o per le sonore tempeste e i tempestosi venti, come si dice nell’Eneide, del più vasto deserto sonoro.   

Nepenthe già rappresentò un passo decisivo – e qui non parliamo più di fama – nell’ideazione artistica che sottendeva il progetto. La Barwick passò dalla solitudine della sua composizione appartata e individuale all’Islanda, dove ha lavorato con Alex Somers, ovvero il produttore dei Sigur Rós, e con la band, sempre dall’islandese accento acuto, Múm. Will invece rispecchia una nuova situazione compositiva, quella del moto. Lisbona, New York, North Carolina, senza mai un vero luogo di concentrazione creativa.

The three different places that I recorded in… they were like different seasons, different places, different emotional ties to each place, different life circumstances.

Nonostante questo l’album, sebbene più freddo, distaccato, ragionato – almeno esteriormente – sembra essere ben focalizzato verso una certa direzione. Emotivamente autobiografico – cosa tutt’altro che prevedibile per un disco ambient – e musicalmente intenso. Basta un brano come St. Apolonia e subito si viene immersi in un’atmosfera densa, stratificata, fatta di voci dal valore strumentale e archi grevi, con qualche tocco di pianoforte che dona liquidità e chiarezza, come nelle composizioni di Grouper. La traccia di chiusura, See Know, rappresenta invece un imprevisto luccichio synth, dal ritmo jazzato, ma sempre dall’andatura rilassata, di chi sa che la pazienza per ricoprire del proprio essere un luogo incorporeo non è cosa rintracciabile se non nella meditazione dell’aria.