The Drones – Feelin’ Kinda Free

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In una recente intervista, Gareth Liddiard, il leader dei “The Drones” – da sempre affascinato dalla storia australiana –, ha affermato: “The Drones una volta erano l’equivalente musicale di un dipinto di McCubbin, raffigurante pionieri intrappolati in paesaggi stranieri. Qui si trasformano nel mondo d’avanguardia di Angry Penguins”. Questo a sottolineare il cambio di marcia rispetto alla produzione precedente.

Diciamolo subito, con l’ultimo disco la band “Aussie” osa come non mai, andando oltre il concetto di Blues.
Qui il canguro viene scuoiato della sua fetida pelle maleodorante, messo a nudo e rivestito di pellicola trasparente. Scarnificato del superfluo, per giungere ad un suono completamente rinnovato.

Alle chitarre sporche e piene di effetti “Fuzz”, di cui il gruppo si è sempre fregiato, si giunge a un sound più articolato e complesso, composto in prevalenza da chitarre sintetiche, Dub, e bassi distorti. La sostanza però non cambia, anzi questo approccio rende la proposta musicale del gruppo australiano più moderna e interessante. Rimangono sullo sfondo i consolidati riferimenti ai Birthday Party, qui sciolti in salsa Kraut(Rock).

Testi tesi, nervosi. Del resto, per capire Gareth Liddiard bisogna necessariamente conoscere l’Australia e le sue tradizioni. I temi affrontati, come anche per gli altri dischi, vertono sulla condizione sociale all’interno del paese, sul nazionalismo, l’immigrazione e la paranoia.

Il disco apre con le due canzoni più belle, srotolando uno splendido tappeto rosso che porta dritto verso il nuovo sound della band. Nella meravigliosa “Private Execution” una galleria di synth segna la strada verso quelle melodie alle quali s’incastonano perfettamente i testi malati di Liddiard:

“Le migliori canzoni sono come i brutti sogni. Voglio un’esecuzione privata, Dammi un’esecuzione privata. Voglio un’esecuzione privata. Gratis”.

Certo, per descrivere meglio l’evoluzione fatta dai The Drones basterebbe esaminare la qualità esecutiva dei suoi componenti. Prendiamo ad esempio le linee di basso della bellissima Fiona Kitschin. Risulterà sorprendente la sua crescita rispetto ai precedenti lavori. Infatti, sarà proprio il basso di Fiona a far letteralmente decollare la sopracitata “Private Execution”: tra le più belle canzoni Blues (malate) di sempre.

Con “Taman Shud” però, torna immediatamente lo spettro dei Birthday Party. Tornano a far capolino anche le chitarre, ma solo per disegnare intriganti accenti a corredo di basso e synth. Il testo poi è davvero intrigante. Riprende uno dei gialli più famosi della storia australiana, il caso “Taman Shud”, noto anche come Il mistero dell’uomo di Somerton. Un caso tutt’ora irrisolto, che narra di un uomo trovato morto nel 1948 sulla spiaggia di Somerton – un sobborgo di Adelaide, nel sud dell’Australia. Taman Shud è la frase scritta su un pezzetto di carta trovato nelle tasche del cadavere, che in lingua “Persiana” significa “finito”, “concluso”.

Arriviamo così trittico di ballate: “Then They Came For Me”, “To Think That I Once Loved You” e “Tailwind”. Tutte e tre struggenti. In particolare la prima sembra per un attimo voler esplodere nel classico “rumore bianco” alla Drones per poi favorire l’innesto dei synth.  “Boredom” e “Sometimes” sono forse le più sperimentali, celando più di quanto mostrato. Infine arriva “Shut Down SETI”, il cui attacco sembra citare “Paranoid android” dei Radiohead, ma con il synth al posto della chitarra. Qui Liddiard immagina un’Australia invasa dagli alieni, mentre Fiona sussurra:

“C’è un deserto più selvaggio di ogni altra cosa che si possa concepire, si trova dritto 70 miglia avanti. Il silenzio è l’eternità.”

Un drone finale, come un vento cosmico, spazza tutto a chiusura di uno dei dischi dell’anno.