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17 Marzo 2017 | Columbia Records | depechemode.com |
Nell’epoca dell’accessibilità, delle voci basse e delle tastiere forti, del progresso tecnologico e del regresso sociale, dov’è finito lo spirito dell’uomo?
Un’epoca in cui lo spirito è inteso come sacro – visto come un qualcosa di lontano – e meramente religioso, la cui rappresentazione non è mai stata poi così umana, fallibile e reale come chi attualmente di persona e come istituzione la incarna, togliendo qualsiasi riferimento ai popoli assuefatti oramai da altro.
Chi allora oggi incamera l’alito della resistenza, della rinascita, dell’opposizione, usando la voce forte per esprimere un sensato dissenso verso l’attuale sentiero intrapreso dalla razza umana? Chi riesce a comunicare in maniera corretta e non subdola, non becera e non superficiale l’attuale profumo nazionalista che oramai sta caratterizzando l’odierno (dis)orientamento politico?
Storicamente a livello musicale ci sono gruppi che hanno avuto una maggiore percettibilità e vicinanza verso le emozioni dell’essere umano; e almeno nel nome, l’origine di quel soffio, di quell’alito di spirito è stato oggi raccolto in un disco da tre anime: i Depeche Mode.
In principio doveva intitolarsi “Maelstrom“, e di sicuro era già stato previsto un importante cambiamento alla produzione: dallo storico Ben Hillier al più eclettico James Ford (Simian Mobile Disco). Poi divenne Spirit; nemmeno tanto casuale se si considera che il corrispondente nel vocabolario tedesco è zeitgeist – lo spirito culturale.
Spirit è un disco che ha toni illuminanti, per quanto a volte cupi, che scaturiscono dalla concezione dell’uomo odierno: condannato dalle critiche situazioni geopolitiche, economiche ed energetiche che lui stesso ha delineato, e di cui molti ora accusano le decisioni di pochi.
L’inizio è abbastanza chiaro. “We are going backwords / turning back our history“, recita “Going Backwords“, pezzo di apertura e solenne critica verso l’odierno regresso culturale; messaggio forte all’uomo che non impara dal proprio passato. Qui è già netta la distanza da Delta Machine (2013), benché l’elettronica continui a rappresentare il fil rouge col passato, oggi si presenta più morbida ed orchestrata. Ne è testimone “You move” ed il suo andamento ritmato, scandito nei tempi dal timbro della voce sensuale di Dave Gahan.
Ma la vera domanda è: perché siamo finiti ad assistere inermi alle dinamiche sistemiche, senza fare la rivoluzione? Ci chiede “Where is the Revolution“, seconda traccia del disco e inno portante di tutta l’opera. Parole che incorporano la rabbia verso una deriva di pensiero, ed un momento difficile – la brexit e le presidenziali americane –, situazioni che Anton Corbijn esorcizza nel relativo video: quello con “le barbe à la Marx ed il treno della rivoluzione in movimento” – come dichiara lo stesso Gahan.
Quel sentimentalismo viscerale, che ha caratterizzato la loro intera discografia, emerge in “Poison Heart“, riproponendoci il connubio tra carnale ed ideale, tra Blues ed Elettronica. L’immancabile ballad arriva con “Eternal“, inno all’amore più puro descritto attraverso un fluido sonoro capace di curare l’anima.
La potentissima “So Much Love“, caratterizzata da imperiosi stacchi di chitarra, fa il paio con “Poorman“; quest’ultima, nel segno della critica Marxista – corporations get the breaks / keeping almost everything they make…when will it trickle down –, si pone come grido di protesta verso un mondo economizzato, oramai trainato dal consumo e nei confronti del quale vi è una sorta di rassegnazione nell’ultimo pezzo, “Fail“.
Le parole “Our souls are corrupt / our minds are messed up / oh we are fucked” chiudono un album che non intende porsi come mero strumento politico, pur proponendo una riflessione importante sulla realtà che ci circonda. Elettronico, spirituale, passionale, solenne, forte e liturgico, Spirit incamera la protesta delle anime disorientate, dimostrando quanto i Depeche Mode continuino a mantenere intatto il proprio approccio visionario.