Motorpsycho – The Tower

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Se questo imponente The Tower fosse uscito con ritardo di un mese farebbero 28 anni esatti dalla prima apparizione ‘live’ dei Motorpsycho avvenuta nell’Ottobre del 1989 a Trondheim, una delle città principali della regione di Trøndelag nel cuore della Norvegia. E se, di contro, pubblicato a cavallo tra il 1968 ed il 1971 lo stesso andrebbe oggi solennemente archiviato al fianco di opere come Paranoid o In Rock.

Fantasie a parte, la premessa serve per ricordare – se ce ne fosse realmente bisogno – che da tempo la band norvegese è tra i pochi superstiti di un’epoca ormai tramontata – l’alternative, l’indie, il post metal a cavallo tra Ottanta e Novanta –, ma anche e soprattutto tra quelli che vantano una cultura musicale senza precedenti o paragoni. Con un valore aggiunto: quello di non avere MAI smesso di credere nelle proprie capacità artistiche e percettive.

Assetati ed affamati di rock, e spinti dalla costante voglia di produrre musica, la loro ‘opera’ vive infatti attraversando trasversalmente il passato suddiviso in più decadi. Mantenendo lo spirito indipendente degli esordi, incuranti di mode etrend momentanei.

Li contraddistingue, rispetto a molti altri, un incessante re-work di sintesi fra generi (proto grunge, noise tellurico, hard rock) attraverso il quale la band trova ancora oggi la spinta propulsiva che – dal primo Lobotomizer” (1990) –  li ha sempre incoraggiati a scrivere con convinzione la loro storia: senza interruzione, senza repliche, attingendo dal passato, vivendo nel presente, proiettai verso il futuro.

Il loro agire ha le dimensioni di un gigante loop psichedelico in evoluzione, tenuto per le briglie da Bent Sæther (voce e basso) e Hans Magnus “Snah” Ryan (chitarra), indiscussi capitani e timonieri della premiata ditta Motorpsycho, da poco raggiunta a bordo dal bravissimo Tomas Järmyr (batteria, già con i nostrani Zu).

Registrato negli States tra Los Angeles e il Joshua Tree, negli studi del Rancho De La Luna, The Tower” si muove con le stesse logiche di sempre, ma proseguendo nel solco di una classicità che daBlack Hole / Blank Canvas” ad oggi, ha portato i Motorpsycho verso la maturità stilistica e di forma, senza però rinnegare quello che li ha sempre contraddistinti: il suono armonioso e potente creato della chitarra graffiante di Ryan e dal basso tellurico e scalpitante di Bent, entrambi vere costanti di un percorso discografico complesso, mai lineare, affascinante.

E così con il nuovo monumentale doppio album la band raccoglie l’eredità accumulata per giocare con la materia hard-prog, incrociando il lento e melmoso dark sound dei Black Sabbath, dell’era Ozzy, con lo schema tecnico heavy-blues dei Deep Purple periodo Mark II.

È il caso dei brani Bartok Of The Universe”, che sin dal titolo rimanda a Symptom Of The Universe, e A.S.F.E.”: quest’ultima, una Paranoid su coordinate Highway Star”. Veri e propri rimandi di genere, olimpo assoluto e sintesi perfetta equamente ripartita tra tecnica d’esecuzione e puro istinto.

L’asse Sabbath/Purple diviene una sorta di tavolozza sopra la quale i Motorpsycho si divertono a splamare, brano dopo brano, elementi colorati di varia natura. Ad esempio: nella intricata opener title-track – cosi come in The Cucko o anche nella conclusiva infinita Ship Of Fools, 14 minuti senza tempo –  si respira l’isteria schizzoide dei King Crimson, trasportata dal fiume lisergico che porta il marchio dei Grateful Dead; o lo strano connubio che troviamo nella barcollante Intrepid Explorer, un simpatico elefante rosa, simile a quelli immaginati da Syd Barrett, che prende il volo fluttuando felice dentro lo spazio cosmico degli Hawkwind.

Ogni scusa è buona per saccheggiare dal passato: come nella tranquilla e solitaria A Pacific Sonata (altro quanto d’ora di durata), con la voce flebile di Bent che sembra non arrivare da nessuna parte ed invece arriva ovunque, portando la seconda parte del brano verso una jam strumentale dai rimandi free-jazz; o nella più agitata In Every Dream Home dove, anche se gli echi dei Black Sabbath sono ancora ben presenti, all’improvviso zampilla un flauto che vagamente ricorda il prog-sound dei Jethro Tull.

Ovunque nel disco – doppio, oltre ottanta minuti di durata si avverte il lento incedere di un’imminente catastrofe. La rabbia si trasforma però in catarsi, pace, serenità. Il buio viene trafitto all’improvviso da un raggio di luce potentissimo, tanto da ribaltare gli equilibri. Il caos dell’anima lascia spazio all’armonia, da tempo cercata e ora trovata.

The Towerostenta ben oltre il semplice patchwork delle parti. È espressione di maturità, che si riassume nella capacità della band di gestire la materia rock (tutta). Sapere ascoltare la musica prima ancora che suonarla o produrla. Maestri.

Data:
Album:
Motorpsycho - The Tower
Voto:
51star1star1star1star1star