Allman Brothers Band – Live at the Atlanta International Pop Festival

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In Georgia, una di quelle ex tredici colonie da cui sarebbero nati gli Stati Uniti d’America, qualcuno nel 1969 ebbe un’idea geniale per festeggiare il 4 luglio, giorno di festa nazionale che celebra la dichiarazione d’indipendenza del 1776: uno spettacolare festival musicale con le rock band più celebri del momento, sulla falsariga dei mitici eventi svoltisi a Monterey nel 1967 e di Woodstock sempre nel 1969. Fu così che nacque l'”Atlanta International Pop Festival”, in un periodo in cui la tensione, all’interno e all’esterno degli States, era ai massimi livelli – un motivo su tutti, il conflitto in Vietnam – e in cui si pensava che la musica potesse far qualcosa, dare un messaggio di pace e amore concreto al mondo intero.
La seconda edizione del festival, svoltasi nell’arco di tre giorni fra il 3 e il 5 luglio 1970, entrò nella storia. La rassegna anzitutto non si svolse proprio ad Atlanta, ma a Byron, un paesino non vicinissimo dalla capitale: il prezzo del biglietto per giorno era di 14$ e gli organizzatori prevedevano l’arrivo di circa 100.000 persone, ma sbagliarono le stime… secondo i racconti di chi c’era le persone giunte a Byron furono mezzo milione da tutti gli USA! Se guardiamo alla lista di chi si sarebbe esibito, citando solo i nomi più famosi, possiamo ben capire il perché di questa marea di gente, oltre ovviamente al grande ideale che animava tutti quanti costoro: all’Atlanta international si esibirono in quei tre giorni artisti del calibro di Procol Harum, B.B. King, Captain Beefheart, Mountain, Jimi Hendrix (di cui fu registrata una memorabile esibizione), Jethro Tull, Spirit, Ravi Shankar e… una band quasi locale, nata a Nashville (Tennessee) ma trasferitasi in quel di Macon, la quale aveva un solo album ominimo all’attivo uscito nel 1969, ma già stava cercando prepotentemente di farsi strada nel grande libro della storia della musica: la band dei fratelli Gregg e Duane Allman, “The Allman Brothers Band”.
Questo doppio live della Legacy immortala le due esibizioni della band, che praticamente aprì e chiuse il festival esibendosi sia il 3, durante il pomeriggio, che il 5 luglio (alle 3:00 circa!).
La leggenda vuole che Duane fosse giunto appena in tempo per l’esibizione: la band economicamente parlando non se la passava certo bene e il chitarrista se ne stava tornando dalla Florida, dove si era recato come sessionist per diversi artisti – fra i quali Wilson Pickett e Aretha Franklin – per racimolare un pò di grana necessaria a proseguire la carriera della sua band, quando si ritrovò incastrato sulla Road 41 con la sua auto nell’interminabile fiumana d’auto che conduceva al festival. Fu grazie agli zig zag di un motociclista che gli diede un passaggio che Duane riuscì ad arrivare in tempo, consentendo allo speaker di annunciare con orgoglio l’esibizione della band, “this is the Allman Brothers and they all play together, Allman Brothers, all man”
La line-up della band è ovviamente quella leggendaria del “Live at Fillmore”, successivo di alcuni mesi: Duane alla chitarra assieme al grande Dickey Betts, Gregg voce, tasteiere e organo hammond, Berry Oakley al basso, doppia batteria di Butch Trucks e Jay “Jaimoe” Johnny Johnson, con in aggiunta l’amico Thom Doucette a fare da sessionist con la sua magica armonica.
Dopo l’annuncio, ecco che la band attacca con un classico, la cover “Statesboro Blues” del bluesman “Blind” Willie McTell, un altro eroe degli anni ’20 e ’30, un classico blues d’epoca riproposto in chiave rock con la slide di Duane che duetta con la chitarra di Dickey, ben supportati dalla fenomenale sessione ritmica e dall’intensa interpretazione di Gregg. Ci sarà da divertirsi, la band è carica e in mezzo a tutti quegli artisti non vuol certo sfigurare.
Il drumming di Jaimoe ci introduce nella seconda traccia, un altro classico del blues, “Trouble no More” di Muddy Waters, in cui oltre alle chitarre spicca il basso groovy di Berry Oakley, che intesse un eccezionale tappeto ritmico su cui le due mitiche chitarre della band si levano esaltandosi ancor maggiormente.
“Don’t keep me wonderin'”, introdotto dall’ottima armonica di Thom Doucette, è il primo brano scritto in proprio che la band ci propone, un ottimo, esaltante saggio di Southern Rock, il genere che loro assieme ai Lynyrd Skynyrd hanno praticamente inventato, cui segue l’atmosferica, vagamente psichedelica “Dreams”, qui in versione jam estesa: mai titolo fu più appropriato per uno dei brani più sognanti mai realizzati dalla band. La fiammante “Every hungry woman”, con un Gregg alle vocals semplicemente esaltante, è anch’essa tratta dal debut della band ed è uno dei pochi brani di questa release ad esser già stata pubblicata; già a metà del primo disco ci rendiamo conto di esser di fronte a un capolavoro, il connubio fra melodia e potenza di sound, unita a una piacevolissima ruvidezza vintage, è semplicemente perfetto, l'”Atlanta” sembra aver ben poco da invidiare al pur celeberrimo “Fillmore” e questo è tutto un dire!
Per la cover della celebre “Hoochie Coochie Man” di Willie Dixon delle vocals si occupa Berry con un risultato esaltante, la riproposizione di questo classico è emplicemente perfetta e il buon bassista si rivela davvero un consumato bluesman in questa esibizione! Ma il bello, come si dice in questi casi, deve ancora venire, ed ecco qua un classico, anzi, il classico degli Allman, la live jam strumentale “In Memory of Elizabeth Reed” in cui i membri della band danno tutti sfoggio della propria maestria nei rispettivi strumenti, intessendo una malinconica e leggendaria melodia in cui i loro strumenti non suonano, ma si può proprio dire che cantino. Undici minuti e mezzo di estasi, questa è semplicemente storia del rock!
E un altro quarto d’ora di puro piacere ci attende con una eccezionale versione estesa – ben nove minuti in più rispetto alla versione in studio – di “Whipping Post”, e poi un altro pezzo destinato a far storia: la mitica “Mountain Jam”, la lunga, estatica jam costruita su “There’s a Mountain” dello scozzese Donovan, un altro dei grandi miti degli anni ’60. Una jam… bagnata, visto che dopo “soli” dieci minuti si scatena un temporale che inzuppa tutti e costringe la band a sospendere salvo poi riprendere più tardi con un “secondo tempo” di circa 7 minuti, che conclude anche questa prima esibizione. Forse la “Mountain Jam” più corta che gli Allman abbiano mai realizzato, ma vedremo presto che avranno modo di rifarsi.
Il secondo concerto della band è semplicemente la conferma della costanza e del talento della southern band. Non ci sono grosse variazioni rispetto al primo concerto di cui sono riproposti ben 5 pezzi sui sei eseguiti, ma è semplicemente un piacere poter riascoltare questi classici riproposti in una cornice ancora più suggestiva – ricordiamo che questa esibizione si svolse in piena notte, anzi, mattina, alle 3:00 circa. E tanto di cappello al pubblico che sembra recepire maggiormente le meraviglie sonore intessute dalla band, che stavolt apre con la sua “Don’t keep me wonderin'” e sembra ancora più esaltata del primo giorno, più sicura di sé, come se ce ne fosse bisogno!
Gregg, Duane e Dickey sembrano particolarmente esaltati, come possiamo verificare nell’esaltante riproposizione di “Statesboro Blues”, che infatti è il secondo dei pezzi già editi dell’album.
E’ già la volta di “In Memory of Elizabeth Reed”, un’esecuzione ancora perfetta di questo magico pezzo di storia, che in questa cornice notturna deve esser stato un’esperienza assolutamente unica sia per la band che per i fortunati spettatori, che forse già si eran resi conto, grazie agli Allman e a tutti gli altri artisti presenti, di esser presenti a un evento che avrebbe fatto storia.
Il quarto pezzo di questo secondo concerto è un altro classico del blues ad opera di uno dei mastodonti del genere: il grandissimo T-Bone Walker, uno dei primi grandi bluesman texani, cui la band paga tributo con una versione da brivido della malinconica “Stormy Monday”. E’ l’apoteosi! Ma agli Allman non basta, ed ecco un’altra “Whipping Post” al fulmicotone, sembra proprio che Duane, Gregg e soci vogliano lasciare senza fiato il pubblico, chiudendo in bellezza la propria esibizione. E ancora non è finita.
Stavolta non ci sono acquazzoni che tengano e si può chiudere con una “Mountain Jam” completa e senza interruzioni, gli unici tuoni e fulmini vengono direttamente dal palco dell'”Atlanta”, perché a dare man forte alla band arriva un terzo chitarrista che si stava anch’egli esibendo al festival, anzi, sarebbe decisamente meglio dire che il signore della slide sale ad accompagnare i fenomenali Duane e Dickey: direttamente da Beumont, Texas, mr. Johhny Winter fa il suo ingresso e il pubblico intero è invitato ad alzarsi in piedi! E’ il delirio totale, il sabba definitivo della musica del Diavolo della durata di quasi mezz’ora, in cui anche la batteria e il basso stavolta hanno modo di esaltarsi con due parti intermedie a dir poco fenomenali. Non avrebbero potuto chiuder meglio, decisamente un trionfo!
In seguito sarebbe venuto il mitico “Fillmore”, ma a questo punto ci vien da pensare che forse, se fosse uscito prima sarebbe stato l'”Atlanta” a entrare nella storia, fermo restando che fa ancora in tempo. Purtroppo, il destino ci tolse prima Duane Allman e poi Berry Oakley, entrambi periti in due incidenti motociclistici a Macon, rispettivamente il 29 ottobre 1971 e l’11 novembre 1972: chissà quante emozioni ancora questi due fenomenali artisti avrebbero potuto regalare agli amanti della musica, non è retorica, è un sincero rimpianto davanti alla prematura scomparsa di due musicisti dall’enorme talento.
Onore alla Epic/Legacy, che finalmente si è decisa a rispolverare gli archivi regalandoci questo live maiuscolo in un periodo di nuova giovinezza per gli Allman, grazie anche all’innesto dell’immenso Warren Haynes. Anzi, a questo punto c’è da sperare che vista la qualità della registrazione e del package si decidano a farlo anche per i tanti altri nomi illustri che hanno partecipato al festival!
Inutile dire che il “Live at the Atlanta International Pop Festival” è un album che consigliamo spassionatamente, live dalla simile qualità di quest’importanza purtroppo non escono così di frequente. Ergo… fatelo vostro, vi farete solo del bene!

Un evento, ecco cos’è questo doppio live della Allman Brothers Band registrato al celebre Pop Festival di Atlanta del 1970. E’ un evento perché, a parte il Fillmore, è l’unico live ufficiale della ABB con Duane Allman ancora in vita, escluso un doppio live del 1971 che però purtroppo è stato venduto solo via internet, e sentire il grande Duane suonare live è uno spettacolo entusiasmante. Ma, a parte l’importanza storica del concerto, è la musica a regnare sovrana per queste due ore e mezza, un musica strepitosa a dir poco, con la ABB in forma smagliante. Fino ad ora avevamo potuto apprezzare i numeri della band nella sua formazione originale solo sul mitico Live At Fillmore East ma adesso finalmente ci viene offerta la possibilità di ascoltare una nuova incredibile performance della band di Macon eseguita addirittura qualche mese prima del Fillmore. La grandezza di Duane in questo doppio cd esce in tutta la sua maestosità e ci permette di capire ancora più a fondo l’importanza enorme che questo incredibile chitarrista ha avuto nella storia del rock. Il suo stile unico alla slide, basato sull’uso delle 3 dita senza plettro e un barattolo di aspirina usato come bottleneck (la celebre Corycidine), ha influenzato e influenza tutt’ora centinaia e centinaia di chitarristi. Purtroppo la sua prematura scomparsa ci fa solo immaginare cosa avrebbe potuto fare questo giovane ragazzo del sud se solo la vita fosse stata un po’ più clemente con lui. Ma veniamo al disco: alla giovane Allman Brothers Band fu dato il compito, e l’onore, di aprire e chiudere il popolare festival rock (al quale parteciparono tra gli altri Jimi Hendrix, BB King, Spirit, Johnny Winter) per cui questo doppio cd immortala gli show del 3 e del 5 luglio 1970, con il secondo set suonato alle 3,50 del mattino! La formazione è quella storica della ABB con i fratelli Duane e Greg Allman, Dicjkey Betts, Butch Trucks, Berry Oakley e Jaimoe a cui si aggiunge (come nel Fillmore) l’armonica di Thom Doucette. La set list è più o meno la stessa del precedente, o successivo che dir si voglia, live; ci sono tutti i grandi classici della band con l’aggiunta di alcune chicche. I due cd, nonostante abbiano una tracklist simile, sono sostanzialmente diversi e vediamo subito il perché: il primo disco si fa apprezzare soprattutto per il suo forte impatto blues; la ABB dichiara al mondo il suo amore viscerale per la musica del diavolo con una serie di canzoni infuocate. Si parte con una straordinaria “Stratesboro Blues”, con la voce di Greg vera regina tanto è nera e roca, e si prosegue con “Trouble No More” e “Don’t Keep Me Wonderin’”. La prima è impreziosita dall’armonica di Doucette che duella con la magica slide di Duane mentre Jaimoe, Oakley e Butch pestano da par loro; Greg è il solito immenso cantante e il grande classico va via che è un piacere tra slide infuocate e deliri strumentali, grandiosa. “Don’t Keep…” è ancora un bluesaccio paludoso di quelli che piacevano tanto ai nostri: sentite come lavorano assieme l’armonica e la slide e come la voce di Greg sia un vero inno al blues; ottima tra l’altro la sua prova all’hammond che dona quel tocco di originalità tipico della ABB. “Dreams” col suo ritmo cadenzato è un classicissimo dei nostri, una composizione in bilico tra swamp sound e jazz, sorretta dal magico basso di Oakley e dall’organo di Greg nella parte iniziale. La canzone cresce poi di ritmo quando entrano le chitarre e via via tutti gli strumenti a segnare la prima jam del disco con il grandioso Duane protagonista: questo è tipico Allman sound chiudete gli occhi e sognate ragazzi! “Every Hungry Woman” inizia con le chitarre di Duane e Dickey che urlano sorrette dall’organo di un Greg sempre più indiavolato. Segue la prima chicca del disco, una portentosa versione di “(I’m Your) Hoochie Coochie Man”: nelle mani dei nostri il grande classico del Chicago blues diventa un vero inno sudista. La band è in forma straordinaria, la sezione ritmica macina riff a ripetizione, le chitarre tagliano l’aria e Greg viene posseduto da qualche spirito infernale del blues: Memorabile versione che segna indelebilmente il primo disco. Segue “In Memory Of Elizabeth Reed”, sempre affascinante ma non entusiasmante come quella del Fillmore e, come vedremo dopo, come la versione del secondo cd. Stesso discorso per “Whipping Post” e per Mountain Jam”, quest’ultima rovinata da un improvviso temporale che costringe la band a fermarsi e a dividere la song in due parti togliendole parte del suo fascino, derivante soprattutto da quella specie di stato di trance che la ABB raggiunge quando inizia a jammare (una dote unica che solo loro e i Dead avevano). Il tutto è documentato sul disco, infatti trovate come traccia 11 una “Rain Delay”, il che contribuisce a rendere questo live davvero super: qui non ci sono trucchi di sorta, sentiamo davvero quello che è successo quella magica notte del 3 Luglio 1970. Se, come detto, il primo cd era tutto incentrato sui brani di stampo rockblues, il secondo è invece un vero inno alle Jam. Lo show di riferimento è quello del 5 luglio che chiude il festival: lo speaker annuncia ”good morning” e sono quasi le 4 del mattino! La ABB parte forte e snocciola subito una acidissima versione di “Don’t Keep Me Wonderin’” molto più hard della precedente e segnata da un assolo di Duane da far impallidire i morti, grandiose le urla di Greg mentre il fratello violenta le corde della sua Les Paul. La successiva “Startesboro Blues” ricalca la versione presente sul primo cd, la quale comunque si faceva preferire per una esecuzione forse più ispirata della band: in questa invece si sentono troppo le chitarre e troppo poco gli altri strumenti, complice senza dubbio l’assenza dell’armonica. Comunque grandi i duelli tra le chitarre di Dickey e Duane che ci fanno presagire quello che sta per succedere. Segue infatti una stratosferica “In Memory of Elizabeth Reed” che non esito a definire come la miglior versione fin qui sentita, migliore anche di quella del Fillmore. Le due sei corde girano a mille mentre Greg, Oakely e compagni creano un muro di suono di rara compattezza. Il Brano prosegue per oltre 13 minuti di totale delirio jammistico! Capolavoro!!! Ma siamo solo all’inizio: è ora la volta di “Stormy Monday” e qui i numeri di Duane sono davvero da leggenda. Chi ritiene esagerate le lodi per questo immenso chitarrista si ascolti questo brano e poi vada a nascondersi, Duane era un fenomeno come pochi ne nascono. Bellissima comunque la prova di tutta la band con Gregg alla voce davvero ispirato. La ABB ormai è lanciata e ci regala una terremotate “Whiping Post” in versione più hard psichedelica rispetto a quelle sentite fino ad ora. Straordinaria l’intesa tra Duane e Bett’s e fenomenale la prova della sezione ritmica che all’epoca non aveva pari nel mondo. Anche questo brano si tramuta subito in una delirante jam che supera i 14 minuti e che rivaleggia alla pari con quella del Fillmore. A chiudere il disco ci pensa invece “Mountain Jam” dove per l’occasione le chitarre sono 3: a quelle di Duane e Dickey si aggiunge infatti quella di un giovanissimo Johnny Winter con il suo inconfondibile sound. Questa song da sola vale il prezzo del disco, spazza letteralmente via quella del Fillmore (il che non è affatto poco credetemi) tale e tanta è la genialità della Allman Brothers Band: 28,20 minuti di musica spaziale, assoli continui di tutti gli strumenti, duelli deliranti, riff assassini, echi di jazz e blues e addirittura un accenno di “Circle be Unbroken” nella parte finale. E’ la vera apoteosi di Duane Allman, il brano che più di ogni altro ha reso immortale il suo mito e quello del suo gruppo, chiusura migliore non poteva esserci per un disco meraviglioso.
Penso di non esagerare dicendo che questo “Live at the Atlanta International Pop Festival: July 3 & 5, 1970” è molto vicino come qualità a quello del Fillmore East. Rispetto al suo predecessore paga essenzialmente due cose: 1 la set list meno varia e 2 che essendo uscito con oltre 30 anni di ritardo non ha l’importanza storica enorme che il Fillmore ha invece avuto. Resta da dire comunque che alcune canzoni presenti in questo doppio live sono decisamente superiori a quelle fin’ora conosciute, e su tutte “Mountain Jam”. Considerazioni tecniche a parte, resta il fatto che sentire ancora una volta Duane Allman suonare dal vivo è una gioia immensa per chiunque ami davvero il rock, sentirlo poi in una serata, anzi due serate, in cui era davvero ispirato è una esperienza irrinunciabile per capire la vera natura della nostra musica. La Allman Brothers Band ha rappresentato, e rappresenta tutt’ora, uno splendido esempio di come le barriere tra i generi siano in realtà spesso delle etichette pretestuose, buone solo per dividere gli album nei negozi. La loro era musica totale in cui si fondevano e miscelavano le influenze di tutti i musicisti, da quelle jazz di Bett’s a quelle blues dei fratelli Allman per arrivare a quelle soul e r&b di Jaimoem, passando per l’amore dei suoni psichedelici del grande e mai troppo compianto Oakley. Un caleidoscopio di suoni unico, senza dubbio per chi scrive è la più grande rock band d’America e forse non solo. Prima di chiudere vale la pena accennare alla favolosa qualità del suono che non dimostra affatto i suoi 30 e rotti anni e la bella confezione con foto dell’epoca e curiosi fotomontaggi. Ragazzi, non esiste un solo motivo al mondo per cui non dobbiate ascoltare questo album, entrate anche voi nel fantastico mondo della Allman Brothers Band, non potrete non innamorarvene.