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L’ultimo “God says no” mi aveva fatto seriamente preoccupare per la sorte dei Monster Magnet: segnalatisi con gli album “Spine of God” e “Dopes to Infinity” nella prima metà degli anni ’90 come una delle migliori leve in ambito stoner assieme a Kyuss e Fu Manchu, la band capitanata da Dave Wyndorf visse un momento di grazia con “Powertrip”, album sicuramente ruffiano ma complessivamente valido che valse loro un momento di gloria nel 1998 in entrambe le coste dell’Atlantico. Il successo – e MTV – giocano però dei brutti scherzi ed ecco che i nostri due anni dopo danno alle stampe “God says no”, una – passatemi il termine – ‘commercialata’ mai vista, piena di canzoni fiacche e insulse che fu un flop pressoché totale, non riuscendo neanche a bissare la rotazione di video che MTV concesse di buon grado al predecessore.
Il colpo subito deve però aver fatto riflettere Wyndorf e i suoi compari, che dopo un silenzio durato quattro anni – e l’ottimo “Songs for the deaf” dei QOTSA – sono tornati con “Monolithic baby”, ansiosi di mostrare al mondo di non essere ancora finiti. E in gran parte ci riusciranno.
“Slut machine” apre l’album mostrando una band travolgente più che mai, con dei riff e un cantato che sembrano portarci indietro negli anni, è quasi come se gli Stooges fossero tornati e si fossero messi a suonare stoner. Un inizio davvero eccellente confermato dalla seconda traccia “Supercruel”, semplicemente un fottutissimo, esaltante pezzo rock. Ma qualche perplessità la incontreremo comunque, già a partire dalla traccia successiva.
Dei Monster Magnet non mi hanno mai convinto più di tanto i pezzi più lenti, ascoltandoli mi danno sempre l’impressione di difettare di qualcosa, una mancanza che purtroppo anche qui si ripete: “On the verge” è un pezzo davvero piatto e se stavolta le musiche non sono male, la colpa è da imputare alla voce di Wyndorf, che in questi momenti non sembra proprio in grado di creare il pathos necessario. Ma il nostro si fa subito perdonare con “Unbroken (hotel baby)”, un altro pezzo dall’impatto notevole, forse il migliore dell’intero album, con Wyndorf esaltatissimo che urla animalescamente forse emulando Iggy.
“Radiation Day” diverte con le sue chitarre a metà strada fra lo stoner e il punk che ricordano molto lo scan rock di band come i Gluecifer (coi quali Wyndorf e soci andranno in tour). La quasi title track “Monolithic” è una song interessantissima: lenta, distorta e iper-allucinata è figlia dello stoner più puro e ricorda gli esordi della band – in particolare il capolavoro “Dopes to Infinity” – forse la miglior cartina tornasole del grandissimo stato di forma della band.
I nostri sembrano avere energia da vendere, al punto da regalarci un’altra gemma stoner capace di togliere il fiato, “The right stuff”, e la successiva cover di David Gilmour, la suggestiva “There’s no way out of here”, sembra essere finalmente un lento convincente e carico di atmosfera, in cui si alternano profondi momenti acustici all’ottima chitarra elettrica di Ed Mundell. Peccato solo che non l’abbiano scritta loro.
“Master of light” sembra invece il pezzo più easy dell’album, quello che potrebbe benissimo passare su MTV o tv simili, ma la sua immediatezza non è certo un difetto, siamo ben lontani dai già criticati pezzi scialbi dell’ultimo periodo.
Non perfettamente riuscita è a nostro avviso la parte finale dell’album. “Too bad” è un titolo molto eloquente: intendiamoci, l’idea di una canzone stile film western con chitarre e atmosfere messicane è più che buona, però Dave proprio non riesce a calarsi nel ruolo. Solo discreta “Ultimate everything”, che nonostante le sue allucinanti chitarre non riesce a rompere la monotonia, forse anche per colpa di una lunghezza eccessiva.
Tirando le somme, i Monster Magnet sono tornati con un platter decisamente all’altezza, coerente e soprattutto convincente: i nostri non sono più la vecchia band che entusiasmò nella prima metà degli anni ’90 ma hanno saputo rinnovarsi davvero bene, diventando una rock machine di tutto rispetto. Certo, in “Monolithic Baby” vi sono sicuramente dei momenti non proprio positivi ma quelli che al contrario lo sono sono nettamente di più e valgono decisamente l’acquisto dell’album, che negli USA si candiderà sicuramente ad essere una delle migliori release dell’anno.