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Sarà che sono un nostalgico, uno di quelli che amano un certo tipo di musica che al giorno d’oggi sempre meno persone suonano, ma ho sempre pensato che un musicista per essere davvero grande non deve solo fare dei bei dischi ma deve soprattutto fare grandi concerti. Scrivere belle canzoni è essenziale ci mancherebbe altro, ma questo non ti rende un grande musicista semmai un grande compositore. Fare un bel disco in studio è anch’esso basilare, ma al giorno d’oggi con i potenti mezzi che la tecnologia ci mette a disposizione è abbastanza facile confezionare un buon prodotto da studio; in fondo se si ha un produttore con gli attributi ci vuole davvero poco. Ma il concerto è un’altra cosa. Dal vivo o sei bravo o non lo sei, o sai suonare o no. Per questo da sempre amo i dischi live, soprattutto quelli un po’ datati, e amo andare ai concerti. Nel mondo del blues tutto quello che ho appena detto si moltiplica all’ennesima potenza perché ci sono delle regole non scritte alle quali chiunque voglia suonare il blues, ad un certo livello, deve sottostare. Un bluesman per poter essere considerato bravo deve misurarsi con i classici: ci sono alcune canzoni che da sempre sono ritenute dei banchi di prova, se sei capace di suonarle bene, allora vai avanti, se non ne sei in grado cambia mestiere. Negli anni 70 un ragazzo che si presentava imbracciando una chitarra a fare un provino per una casa discografica si sentiva fare sempre la stessa richiesta: “suonami Hide Away” oppure, se era uno slider “The Sky is Crying”. Se eri un armonicista dovevi confrontarti con Juke di Little Walter e via dicendo. Lo stesso accadeva nei concerti: uno sconosciuto che saliva su un palco dopo poche canzoni doveva eseguire qualcuno dei classici per dimostrare di essere davvero in gamba. Giusto o sbagliato che sia questo metodo di “selezione naturale” ha permesso che solo i più dotati andassero avanti e la prova del pubblico ha sempre fatto la differenza. Faccio tutto questo discorso perché il disco che sto per presentarvi racchiude in sè questa tradizione. Che Johnny Winter sia un chitarrista e cantante fenomenale non lo scopro certo io, da 35 anni il musicista albino incendia i palchi di tutto il mondo col suo sound davvero unico. Anche se al giorno d’oggi non esiste nessuno che possa tenergli testa quando c’è da imbracciare chitarra e bottleneck, nei suoi concerti il nostro continua a riporre i grandi classici, non perché non abbia sue canzoni da interpretare, ne ha scritte di memorabili, ma perché questo è un modo di omaggiare se stesso, il pubblico e la tradizione. Questo “Live in NYC 1997” è uno splendido esempio di tutto quello che ho detto in precedenza. Johnny prende 9 classici del blues e li esegue da par suo. Si tratta di brani che solo i grandissimi sanno interpretare come si deve e Winter è certamente un grandissimo: All’epoca di questa registrazione il nostro veniva da un lungo periodo di inattività, alcuni dicevano che i troppi anni di abusi ne avevano minato le capacità. Johnny non si è scomposto più di tanto, si è rimesso in sesto ed è tornato sul palco. Tanto per far capire agli scettici che il più grande era ancora lui, il nostro decide di attaccare con nientedimeno che “Hide Away”. Introdotta dal suo classico “yeaaaaahhhh” , bastano i primi due minuti e tutti i dubbi svaniscono: interpretazione da fantascienza, di musicisti che sanno fare questa canzone in questo modo ce ne sono stati davvero pochi. Una velocità pazzesca unita alla precisione di un chirurgo.La serata è di quelle di grazia e Winter subito dopo snocciola un fantastico medley “Sen-Sa-Shun/Got My Mojo Working”, la prima sempre di Freddie King, mentre la seconda non ha certo bisogno di presentazioni. Le note prodotte dalla sua firebird sono vera poesia, la voce ha perso un pochino della potenza dei tempi d’oro ma rimane sempre di grandissimo livello. Altra esecuzione da manuale del blues. Dopo il torrido boogie blues di “She Likes to Boogie Real Low”,un classico di Frankie Lee Sims, Johnny ci regala una fenomenale “Blackjack” (di Ray Charles), oltre 8 minuti per uno slow mozzafiato, la conferma che i più grandi sanno rendere omaggio alle leggende. “Just a Little Bit” è invece un texas blues bello tirato che fa emergere l’anima più rockettara del nostro. Dopo questa bella interpretazione Johnny Winter si rivolge al pubblico e annuncia “ e ora slide guitar”. Inutile dire che i fortunatissimi presenti non aspettavano altro. Si parte con “The Sun Is Shining” , nella versione di Elmore James, e a questo punto pare chiaro a tutti che il re è davvero tornato sul trono. L’assolo centrale è un vero inno alla slide elettrica, una prova da leggenda. Abbiamo raggiunto l’apice? Macchè, il grande bluesman albino ha ormai innestato la quarta e si misura con la monumentale “The Sky Is Crying”. Di questa incredibile canzone ne avrò sentite centinaia di versioni ma che eguaglino quella che Johnny Winter ci regala in questo album a mio parere ci sono solo quelle del suo autore Elmore James. Certo SRV e Albert King ne hanno fatte di meravigliose, ma non erano degli slider. Nessuno al mondo sa suonare la slide come Johnny, nessuno ha la sua precisione, la sua velocità e il suo tocco, in questi 7 minuti abbondanti c’è la summa di un musicista strepitoso, se qualcuno pensava di sottrargli il trono prego si riaccomodi al suo posto, queste cose sa farle solo lui; sentite l’ovazione che il pubblico gli regala alla fine del pezzo.
Dopo tanta maestosa grandezza il nostro si esibisce nel suo inno: la celebre ed irresistibile “Johnny Guitar”, un R&R davvero travolgente. “Drop the Bomb”, una strumentale tutta suonata sulle note basse, chiude il disco con gli ultimi funambolici numeri di Johnny e della sua 6 corde.
Live in NYC ’97 è la giusta celebrazione di uno dei più grandi chitarristi di tutti i tempi, un’ora di blues di eccezionale livello in cui spiccano almeno due interpretazioni davvero da leggenda.