Old Time Relijun – Lost Light

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“Un passo deciso verso una musica più accessibile e quasi ballabile”
Certo, ci vuole coraggio a lasciare simili dichiarazioni, specialmente se il disco in questione è l’ultima fatica del gruppo capitanato da Arrington de Dionyso arrivati alla quinta prova in studio senza il batterista Phil Elvrevrum (ormai con i Microphones). Cambia il sound del gruppo che sembra avvicinarsi ad una forma più oscura e intima: le sonorità di Lost Light (titolo che fa presagire quale sarà l’andamento generale delle atmosfere) sono zoppe, sbilenche, ubriache, sembra sempre che da un momento all’altro possano sprofondare nel buio. Si trascinano guidate (meglio dire tirate) dal latrato allucinato di Dionyso fancendosi spazio tra litanie dalle atmosfere sacrali dall’andamento profano (“Cold Water”) e sfoghi che si rivelano essere una sfida lisergica all’apparato uditivo (“this kettle contains the heart”). In questa specie di caverna si trovano sax perennemente impazziti che tentano ossessivamente di farsi strada tra il buio di chitarre abrasive e contrabbassi dissonanti (“Tigers In The Temple”, free-punk-noise-jazz?), ninne nanne da brividi (“Music Of The Spheres”) e drammi musicati (“The Rising Water, The Blinding Light” che nel modo di essere cantata ricalca i peggiori bluesman e ci regala una spiritualità malata coperta di angosce). Particolare la chiusura del disco affidata a “War Is Over” piccolo spiraglio di luce che sancisce la vittoria (?) sulle atmosfere del disco. Che sia chiaro, questo non è assolutamente un lavoro di facile approccio. Gli Old Time Relijun non hanno mai voluto essere approcciabili, anzi hanno sempre dato una chiara idea del loro modo di fare musica, un modo che abbraccia allo stesso tempo le sonorità del garage rock, del noise rock, le influenze free jazz del Capitano, il punk marcio dei Cramps, a volte la teatralità di un Tom Waits estremo, i cenci blues di John Spencer immettendo tutto in un caos primordiale sofferente e tormentato, quasi demoniaco dal quale sembra non ci sia altra via d’uscita se non cantarlo (urlarlo?) con tutta la forza possibile. A pensarci bene, sull’accessibile posso dargli ragione: si entra direttamente nel loro mondo malato. Sul quasi ballabile.. beh, provateci.