El Muniria – Stanza 218

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Prima di iniziare, una doverosa precisazione: anche se il progetto porta il nome di Emidio Clementi, non aspettatevi i Massimo Volume.
Se “tutto ciò che separa è santo”, affermazione con la quale ci accoglie in apertura, il disco è allo stesso tempo santo e martire: se l’inizio promette grandissime cose, tra atmosfere care a Tricky, ai Massive Attack più odierni e al trip hop, tra slide chitarristici di Dario Parisini (ex Disciplinatha), elettronica di Massimo Carozzi e l’atmosfera satura di caldo e sabbia, non riesce però a mantenere fino in fondo queste pecurialità quasi sacrificandosi a sè stesso per la sua stessa idea – registrare in venticinque giorni in un albergo durante un viaggio a Tangeri. Qualcosa si incrina e il disco finisce con l’essere completato a Bologna soffrendo della conseguente dilatazione dei tempi; si nota proprio nei capitoli finali che sembrano perdere mordente e divenire un’ombra della passata avventura di Clementi.
Si parla di capitoli non per caso: questo disco sembra essere strutturato come una sorta di sceneggiatura per un film su un diario di viaggio. Forte della sua esperienza letteraria e degli episodi di reading, Clementi riesce a creare con la musica una sorta di paesaggio al quale la memoria si riallaccia e ferma il tempo, nel quale si muovono personaggi come in un vecchio western pieno di polvere. Colonna sonora e sceneggiatura immersi in un senso di oppressione che, spiegato in un’intervista, “è legato alla densità dell’aria di Tangeri, alla sua natura gassosa.”
Aria che si respira nelle prime tracce: “Santo”, “Shalimar hotel” e “Stanza 218” e i loro incontri invisibili (“mi scrivi per sapere che tempo fa nella mia testa, e vorrei risponderti. Io sento solo l’aria che entra da una finestra rotta, sento solo le mattonelle fredde sotto i piedi e le pareti che scricchiolano”). Che comincia a perdersi quando la timida voce di Clementi in “Fino in Fondo” sancisce lo stacco cantando che ci stiamo a fare qui?. Che torna infine nell’ultima traccia, “Insieme”, unico momento corale del disco, nella quale si mescolano alla musica rumori d’ambiente: il disco si chiude ciclicamente, si torna a Tangeri per l’ultima preghiera (“fa’ che il giorno si dimentichi di arrivare”) mentre il sole chiude a forza l’ultima scena.