Afterhours: L' Indie che divenne Dandy

Ti fai il culo a capanna per circa vent’anni, più o meno da quando sei un punkettone alto un metro e un cazzo che cerca di sbarcare il lunario con una band troppo esterofila per piacere nel Bel Paese; ora sulla stregua della quarantina ti ritrovi con sei album cazzutissimi alle tue spalle tutti pluririconosciuti dalla critica (nazionale e non),e a una settima dalla pubblicazione ufficiale di un disco a cui hanno collaborato artisti di calibro internazionale. E nonostante tutto questo anche stasera fai fatica a riempire la saletta di un centro sociale nei meandri di Torino. Chi più di te può arrogarsi il sacrosanto diritto di scatarrare con sdegno altezzoso sulla disgustosa massa del pubblico pagante?
Coloro che in questi giorni si trovassero ad assistere ad un concerto degli Afterhours, in promozione del loro quinto disco in italiano, “Ballate per piccole iene”, vedranno davanti a sé un gruppo tanto orgoglioso e consapevole del proprio talento da esibirsi in uno show che potremmo definire “oltraggioso”.
L’ora mezza di un ritardo molto più che accademico che precede l’ingresso dei cinque milanesi (sull’armonia malinconica della nuova, struggente “Ballata per la mia piccola iena”) comincia a mettere a dura prova il pubblico. Si continua con un altro pezzo nuovo, più movimentato, gli spettatori seguono il ritmo, pazientano ancora e vengono ricompensati da “Male Di Miele” e “Sulle Labbra”, due brani che tutti conoscono bene e che potrebbero dare il via ad una scaletta da amarcord…potrebbero perché così non accade. Manuel Agnelli annuncia solennemente di essere in preda ad un’influenza attanagliante (che precluderà la durata del set nonchè la scelta dei brani più movimentati),e lo fa, per giunta, con un birra in mano: non solo ma, cari miei pulcini, stasera gran parte della scaletta sarà composta di brani che non avete mai sentito in vita vostra, per giunta ballatone complesse e malinconiche sparate in sequenza unica e voi, stretti come in una scatola di sardine (o di baccalà data la vostra espressione inerme durante l’esibizione) dovrete interiorizzare quello che si presenta come uno degli album più sofisticati di questa stagione, all’interno del grande altoforno che è divenuto l’Hiroshima da qualche minuto a questa parte. Una prospettiva espressa con assoluta nonchalance che non ha mancato di scatenare qualche dissenso, prontamente tacitato:”Per chi non fosse interessato, più in là c’è da bere”.
Così sono stati davvero pochi gli episodi della scaletta che hanno acconsentito alla partecipazione del pubblico, l’esecuzione di “Rapace” o di una perfetta “dea” che non facevano altro che alimentare un’enorme rabbia proprio per la loro capacità di farti urlare come un ossesso (…ma allora sanno ancora coinvolgere, cazzo…) : e malgrado questo si procede per la strada dell’ambizione con i nuovi arrangiamenti che stravolgono “pelle” e “Non sono Immaginario” ( versione chitarra elettrica e vocalizzo) privano chi ascolta di due dei pochi brani già noti. Con “musicista contabile” però si arriva al culmine della beffa: dilaniato come neanche la loro migliore ballata avrebbe meritato, questo brano, da sempre secondario nel repertorio del gruppo, sfiora i sei minuti e sostituisce alcuni dei loro capolavori più apprezzati. Si conclude con “Tutto Fa un Po’ Male” dopo appena un’ora e un quarto e niente “Voglio Una pelle Splendida”, nessuna “Non è Per sempre”, scordatevi “dentro Marilyn”…e dopo cotanta vergogna narratavi aspetterete la sentenza per questi boriosi musicisti, “chi si credono d’essere con le loro mille copie vendute, antipatici che non sono altro, si prendano la ramanzina che gli spetta”. Beh, scordatevi anche quella! Non ho alcuna intenzione,pur in qualità di spettatore martoriato, di criticare gli Afterhours per il loro set poiché lo considero geniale: non solo per l’intensità innegabile di brani come “Bungee Jumping” o la nuova “Il compleanno di Andrea” ma soprattutto per questa boria mostrata al pubblico di cui si è detto sopra. Che vi piaccia o no l’artista non è alle dipendenze del pubblico, nemmeno quando sale sul palco: anche a me sarebbe piaciuto sentire “sui Giovani d’Oggi ci scatarro su” ma il punto non è questo. Perché finchè gli spettatori di un concerto si recheranno allo stesso con una serie di brani in mente e ne usciranno avendoli ottenuti tutti (con l’esclusione di un paio, nei casi più tragici) allora, è stato bello, arrivederci e grazie. Ma se invece i gruppi cominceranno a fare quello che gli piglia, presentando l’intero nuovo lavoro, se gli va, o dedicandosi solo ai loro pezzi più veloci, o più lenti, o più famosi costruendo la scaletta secondo l’umore della serata, suonando veramente solo ciò che vogliono suonare in quel determinato momento, potremo dire addio agli show preconfezionati, alle scalette burocratiche, alla fastidiosa ansia di soddisfare i capricci del pubblico al solo fine di farlo tornare. Questo, sissignore, significa fregarsene dei fans, dei loro commenti, significa suonare con la libertà di scontentare, di dispiacere, provocare ed irritare; e allo stesso tempo significa avere rispetto per queste persone, evitare di inscenare teatrini solo per richiesta. La musica non è un “lavoro socialmente utile”: è lo sfogo di tutte le frustrazioni personali, contenitore delle emozioni più violente o delle gioie più grandi, confidente che sa solo ascoltare e consolare, pungiball pronto ad incassare tutti i tuoi colpi, una puttana che puoi scopare quando lo ritieni opportuno, godendo magrai, ma senza necessariamente sentirti in dovere di ripagarla. E in ciò gli Afterhours dovrebbero dare lezione.