Porcupine Tree – Deadwing

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Per molti appassionati – me compreso – l’uscita del nuovo album dei Porcupine Tree è, con ogni probabilità, l’evento discografico più importante di questo 2005. L’attesa stava diventando sempre più insopportabile, come succede ad ogni nuova uscita del porcospino, complice alcuni immancabili slittamenti e la creazione di un mini sito dedicato all’album, in cui alcune preview dei brani, montate in scaltra e magistrale sequenza, facevano pensare a questo disco come all’ennesimo capolavoro da parte di Wilson e co.. Finalmente abbiamo “Deadwing” tra le mani, ma onestamente di capolavoro non possiamo parlarvi, almeno non nella misura in cui eravamo soliti riferirsi ai dischi dei Porcupine Tree. Che “Deadwing” sia un buon disco non vi è dubbio, ma visti gli standard cui il gruppo di Wilson ci ha sempre abituati, pare lecito collocare questo “Deadwing” almeno un paio di spanne sotto tutta la produzione post “The Sky moves sideways”. Non mancano, come al solito, novità stilistiche che si traducono però quasi ed esclusivamente in ulteriori passi verso sonorità e suggestioni ai limiti dell’heavy metal, per altro già apparse qua e là su “In Absentia” – disco di ben altro spessore – e più in generale verso tonalità scure, a tratti pure inquietanti. Il suono è notevolmente compatto e moderno, la band si dimostra una volta di più affiatata e in grado di suonare un rock che, comunque, ancora oggi continua a non avere confronti degni di nota. Nonostante questo si respira a più riprese una fastidiosa aria di progetto incompiuto, soprattutto nell’ispirazione delle canzoni, buone ma non imperdibili come avremmo voluto.

Ad aprire questo attesissimo come back troviamo la title track, con un intro ipnotico che poi sfocia in un riff di chitarra aspro e coinvolgente, che forse alla lunga indugia un po’ troppo in territori prog metal, che sinceramente non sento propri di Steven Wilson. Ottimo lo special melodico, soprattutto nel coro, arricchito anche dalla preziosa collaborazione di Michael Akerfeldt degli Opeth, una parte che forse avrebbe meritato più spazio anche a scapito di certe divagazioni heavy in cui la batteria di Gavin Harrison si mantiene su figure ritmiche, a dire il vero leggermente ripetitive, talvolta ai limiti dell’ossessione. Altrettanto ottimi i soli, il primo di grande effetto ad opera di Wilson che mostra suono e tocco davvero squisiti ed invidiabili, il secondo di un illustre ospite, Adrian Belew, il cui inconfondibile stile si sposa benissimo con le atmosfere che accolgono la sua performance, ai limiti della psicosi sonora. Di seguito il primo singolo tratto dall’album, “Shallow”, un brano estremamente granitico, in cui Wilson sfoggia tra le cose più pesanti che abbia mai composto. Il brano non è male, forte di un riff in apertura azzeccato e sicuramente ben costruito, sebbene il ritornello, trattandosi di un singolo, non sia dei più immediati; si notano interessanti combinazioni tra voci filtrate e semi distorte, basso e batteria incalzanti e chitarre che suonano duro, a dire il vero pure troppo, per una composizione che a conti fatti non lascia il segno. Altro singolo nella successiva “Lazarus”, più pacata, più in linea con certi brani d’atmosfera del passato recente del porcospino, sebbene quel giro di pianoforte, su cui si adagia pure piacevolmente, sconfini oltremodo nel già sentito, caratteristica che in definitiva non fa passare alla storia nemmeno questo brano. Con “Halo” ritornano le straordinarie partiture di basso di Colin Edwin già apprezzate in passato su songs come “Hatesong”, quindi un riff frizzante, a tratti ipnotico, supportato dal tremendo drum work di Harrison che garantisce ai brani una batteria dinamica, estremamente colorita, sebbene talvolta leggermente nervosa rispetto a quella maggiormente compassata, fornita in passato, di Chris Maitland.

Con la seconda parte del disco si hanno pure le cose migliori: “Arriving Somewhere but not here” riporta alla ribalta le incredibili atmosfere liquide e cosmiche di cui i nostri sono sicuri maestri. Il cantato a dirla tutta non è eccessivamente ispirato, ma alcune parti strumentali dal ritrovato gusto space rock fanno registrare il primo grande momento del disco; peccato solo per quella digressione finale ancora ai confini del metal prog, con pesantissimi ed articolati riff di chitarra su una batteria tiratissima che sinceramente avrei risparmiato ad un brano di questo calibro. Ancora buonissime cose su “Mellotron Scratch”, in special modo per le interessanti progressioni chitarristiche di Wilson e ancor più sul finale, in cui i Porcupine Tree indovinano un giro strumentale estremamente godibile. La successiva “Open Car” alterna momenti ottimi – il pacato ed evocativo bridge di evidente scuola wilsoniana – ad altri realmente fuori luogo – il riff portante ancora una volta di ispirazione metal –, ad altri ancora senza infamia e senza lode – l’insipido ritornello – . Notevolissimo invece il picco qualitativo espresso in “Start of something beautiful”, forse il brano più in linea col passato dell’intero lotto, dove finalmente si tornano ad apprezzare gusto per ambientazioni rarefatte ed interstellari, sottolineate dall’immenso lavoro ritmico di Edwin ed Harrison, dai sapienti ricami ai sintetizzatori di Richard Barbieri – sul resto dei brani poco meno che evanescente – e dall’ azzeccato impiego di distorsioni maggiormente calibrate, che non vanno incontro al citazionismo metallaro ma spingono adeguatamente verso colorazioni del tutto particolari e al netto servizio dell’atmosfera del brano, con tutta probabilità il più riuscito di “Deadwing”. Chiude “Glass arm shattering”, una composizione estremamente liquida e sospesa, strutturata su un arioso mezzo tempo in cui si rende omaggio a certe suggestioni floydiane, attraverso modi che solo i Porcupine Tree possono creare, sebbene non possa trattenermi dal far notare che, anche in questo episodio, emerga qua e là la sensazione di una certa monotonia e inopportuna insistenza sul tema principale e che manchino quasi del tutto quelle straordinarie ed uniche progressioni stilistiche che avevano incantato dischi come “Lightbulb Sun” e “Stupid Dream”.

In definitiva un disco che non colpisce come avrebbe dovuto, in cui si fanno largo molte piccole delusioni in brani che a conti fatti rimangono solo discretamente riusciti e sporadicamente buoni. La svolta metal non pare azzeccatissima, ma è risaputo l’interesse di Wilson verso queste sonorità, che mai come in questo album ha deciso di mettere così in primo piano. Tuttavia il problema di questo disco sta nella minor vena, rispetto al passato, in fase di composizione, soprattutto nelle linee vocali e in certe soluzioni strutturali, in quanto si mostrano a più riprese carenti di quelle affascinanti sfaccettature che hanno reso grandi i Porcupine Tree. Ma quel che è peggio è che questo nuovo album esaurisce la sua forza dopo pochi ascolti, rendendo vani molti dei tentativi di immediata rivalutazione, cosa che probabilmente renderà “Deadwing” l’opera dei Porcupine Tree meno resistente all’usura del tempo. Se infatti oggi sono in molti ad ascoltare dischi come “Sky Moves sideways” o “Signify” provando sempre nuove emozioni, lo stesso, sono sicuro, non accadrà per “Deadwing”. Comunque sia non sono solo ombre: “Deadwing” ha il pregio di possedere un suono eccellente, probabilmente il migliore di una serie di dischi che brillano tutti per bontà sonora, il che conferma una volta di più la straordinaria abilità di Steven Wilson nel costruire paesaggi sonori unici e riconoscibilissimi, dunque fortemente personali. Che dire dunque di “Deadwing”: forse un disco che difficilmente ameremo maggiormente ascoltandolo una volta in più, che magari non pare adatto come consiglio per chi volesse avventurarsi per la prima volta nella discografia del gruppo, comunque sia un disco dei Porcupine Tree, gli unici oggi a saper coniugare con innata abilità e indubbia personalità certe atmosfere del passato con attitudini altamente moderne. Direi piuttosto di goderselo per quel che è, vale a dire un buon disco di nuove canzoni che tuttavia alimentano sistematicamente quella maledetta e incontrollabile voglia di aspettarsi sempre quel qualcosa in più.