Hood – Outside Closer

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E’ una cantilena vagamente indie-folk sorretta da una maestosa architettura d’archi e fiati quella che apre Outside Closer, il nuovo (capo)lavoro degli Hood. Ancora memori della lezione della premiata ditta Why?/Doseone, stavolta viene dato largo spazio al punto di vista “analogico”, continuando però a tracciare le vie oblique di recente scuola Four Tet: a volerlo giudicare da un punto di vista insolito-ma-non-troppo, quello degli Hood è il disco pop perfetto.
Insomma: prendi i Bark Psychosis, frullali con gli Arab Strap e Talk Talk, riempili di arrangiamenti d’archi e fiati da mozzare il respiro; crea un disco di mid tempo fuori del mondo, come se della musica arrivasse solamente l’eco, pieno di riverberi, voci e batterie jazzy; spingi play per entrare in un perenne autunno, fatto di chitarre dilatate (Closure), pianoforti e archi (End Of One Train Working) e beat elettronici; basta? Certo, gli episodi migliori rimangono quelli del passato (Any Hopeful Thoughts Arrive – che è perfetta), ma quella degli Hood è musica destrutturata (a volte richiama la folktronica) e in perenne movimento: e ben vengano le intromissioni di fiati e archi nell’impianto elettronico, ben venga la rarefazione, perché se portano alle lacerazioni dissonanti di Winter 72 (tra Postal Service e Talk Talk) o al post-pop da camera di Still Rain Fell, allora c’è davvero poco da ridire. E di fronte al gioiello evanescente, L.Fading Hills che ci delizia con un incrocio tra trip hop, jazz e Slowdive, bisogna chinare il capo davanti a chi, da più di dieci anni, produce solo perle al di fuori di ogni classificazione; che sia post rock (innegabile, il disco si nutre di questo), neo psichedelia o altro, gli Hood riescono perennemente a toccarci le corde dell’anima.