Sleater Kinney – The Woods

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C’è una leggerissima differenza tra le Sleater Kinney e chi propone post punk al giorno d’oggi. Risiede nel piccolo fatto che i secondi, e qui potete infilare un nome a caso tra le milioni di proposte di questi anni, assomigliano a quegli anziani portieri che, all’uscita della scuola, ti davano le caramelle, quelle piene di zucchero, e tu te ne andavi contento e soddisfatto per il succulento bottino. Se avessimo continuato così per anni senza fermarci alla soglia delle medie, saremmo morti di diabete, questo è certo. Ed è ciò che succede oggi: le Sleater Kinney ci salvano dalla malattia e ci tolgono l’appiccicaticcio grazie ad un muro sonoro che, se volessimo paragonarlo a qualcosa, dovremmo tirare fuori un foglio di carta vetrata. Basterebbe ascoltare i primi secondi della stralunata The Fox a volume abbastanza sostenuto che ci ritroveremmo con i buchi per terra. E tutto l’album non fa una piega: le migliori riot grrl ancora sul campo dopo la perdita delle Bikini Kill sono tornate e sembrano regredire (un po’ alla Pj Harvey di Hu Uh Her senza rimmel e rossetto) a quel lontano 1997, anno dello sferragliante Dig Me Out. Poche cose sembrano cambiate, tanto da poter supporre una diretta continuità cronologica: Fridmann (scelto come produttore) non fa altro che attuare la semplice regola di sottrazione + psichedelia – punk, e basta ascoltare le chitarre per godere la saturazione del fuzz a tutto volume. Il resto fila tra la perfetta esecuzione vocale di Corin (che non avrà pure mai preso lezioni di canto, ma ha un’espressività fuori dal normale), le sferzate psych-blues di Wilderness, il puro 60’ style di Entertain o Modern Girl e gli undici incredibili minuti di Call It Love, spaziale jam session come più non se ne sentivano da tempo, che sembra di stare ad ascoltare i Blue Cheer. Ultimo avviso va a Jumpers: basterebbe da sola l’emotività di questo pezzo a giustificare l’acquisto ad occhi chiusi di quello che si prospetta il capolavoro delle Sleater Kinney.