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E’ di conoscenza comune il fatto che si sia cominciato a sparlare di “X&Y” ancor prima che esso fosse concepito. E’ di conoscenza comune che le chiacchiere siano aumentate via via e gli entusiasmi siano lievitati a dismisura, addirittura da parte dei loro stessi autori che non hanno tardato a definirlo il loro disco migliore. Ed è di conoscenza comune che si sarebbe trattato dell’album sperimentale dei Coldplay e, per chiudere in bellezza, dell’album dei Coldplay che avrebbe sancito il loro ingresso nel salotto dei più grandi del rock. Le parole e le giuste ambizioni, o, a volerla leggere con una punta di malcelato sospetto, le bugie e le stupide pretese degli artisti di oggi: la rovina di questo rock che, è bene ricordarlo agli ottimi Coldplay, non sarà mai come quello fu. Manco un po’. Mancano artisti, opere e spettatori perché esso possa avvenire. Sulla sperimentazione sorvolo: darla a bere a costoro che fossero cresciuti a pane e anni 70 è dura anche per uno che comincia a saperla lunga come Chris Martin. E a dirla tutta questo “X&Y” non è altro che un disco caruccio. Non usate la parola onesto però. Perché se “Parachute” lo fu un onesto capolavoro di spontaneità, che in un insospettabile silenzio arrivava direttamente dal cuore verso il cuore, questo nuovo album è l’emblema del progetto studiato a tavolino, ed odora fin troppo di artificioso, con quelle sonorità anni 80 messe insieme per conquistare il 90% degli appassionati di oggi, che proprio di questi tempi stanno scoprendo la new wave ed in genere i synth-giochini degli anni 80. Nato, morto e risorto almeno un paio di volte nell’arco della sua intera gestazione, “X&Y” ha un inizio tutt’altro che disdicevole: “Square one” e “What if “ sono infatti le canzoni che per una manciata di minuti han fatto credere ai più sospettosi che Chris Martin avesse azzeccato nuovamente una formula pop (ma togliete quel fuorviante ed anacronistico “brit”, per carità) irresistibile e notevolmente intelligente, consegnandoci dunque due perle sbarluccicanti come un miraggio in un deserto che si mostrerà a breve oltremodo arido. Infatti la successiva “White Shadows” spiazza immediatamente per la sua inconcludenza e la sua banalità armonica e d’arrangiamento. Per un attimo ancora si intravedono buoni spunti su “Fix You” con quel finale epico da urlare a squarciagola in un Festival Estivo straripante di superficialità. Da qui in poi noia assoluta alternata a scaltro mestiere, a tratti spuntano tra le citazioni i Simple Minds più spompati che la storia ricordi. Orrendo il singolo “Speed Of Sound” con un arrangiamento incomprensibile e pomposo, con quelle tastiere “simil Bontempi” oltremodo presenti che caratterizzano molti episodi di un album che, in definitiva, ci pare onestamente poca cosa. Un po’ troppo poco soprattutto per una band che non manca giorno in cui non ci venga ricordato essere la migliore d’oltre manica. Ma se davvero lo fossero (i migliori) il rock si trova a dover sopportare davvero un pessimo stato di salute.