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Ebbi modo di conoscere ed apprezzare la musica di Guy Blackslee, in arte “Entrance”, qualche tempo fa, quando questa specie di sciamano del Blues fece la sua ouverture per Micah P. Hinson presentandosi in maniera forse un po’ dimessa, ma catturando immediatamente tutta l’attenzione del pubblico con il suo Blues ipnotico, armato delle sue sole chitarre e della propria voce, come i vecchi maestri provenienti dal Delta. E Guy la musica del Mississippi ce l’ha nel sangue, le paludi del sud degli USA e New Orleans sembrano quasi essere la sua patria adottiva e Robert Johnson, Blind Lemon Jefferson e Woody Guthrie i suoi maestri. Entrance però, nonostante questo, non è un bluesman canonico: già al lavoro con gli amici Devendra Banhart e TV on the Radio, le sue canzoni riprendono sì motivi tradizionali – “Make me a pallet on your floor”, “Honey in the Rock” e “Darling” sono vecchi brani folk riarrangiati e dotati di nuovi testi dal talentuoso Guy – o temi dal fascino immortale come quello del treno in “The Train is Leaving”, classico leit-motiv del blues, piuttosto che quello del vagabondo solitario in “Wandering Stranger”, però egli allo stesso tempo stravolge totalmente i canoni del blues da cui trae ispirazioni. Mi riferisco in particolare alla durata media delle canzoni: qui i classici “pezzi da tre minuti” del blues più ortodosso sono ben pochi, i brani di Guy sono dei blues dilatati e dall’effetto ipnotico, l’ascoltatore sembra a tratti ritrovarsi nei vecchi locali del sud ad ascoltare e a rivivere sulla propria pelle queste storie dal fascino eterno, e il bluesman di Baltimora è lo sciamano che consente questa sorta di trance estatica. Nonostante la formazione a trio classica e apparentemente minimale, con Tommy Rouse alle percussioni (nonché autore del bellissimo artwork del disco) e Paz Lenchantin (già con A Perfect Circe e Zwan) alle prese con pianoforte e violino, la musica di Entrance riesce a creare strutture sonore ricercate e stranianti: basti ascoltare brani come “Lonesome Road” (brano di ben 12 minuti, ma il tempo è davvero relativo in questo disco…) o “Please be careful in New Orleans”, in cui il violino di Paz sembra voler ricreare i deliri sonori della celebre viola di John Cale, o ancora a “Make me a pallet on your floor”, in cui sembra di ascoltare ancora una volta i Grateful Dead, acustici ma ugualmente ipnotici. Blackslee colpisce nel segno anche quando suona un blues più canonico: “Honey in the rock” ci fa capire come questo ragazzo abbia il blues dentro di sé, l’intensità disperata e crepuscolare della sua interpretazione tocca direttamente il cuore dell’ascoltatore, è Blues nella sua accezione più pura, un grido disperato di chi non ha altra possibilità di esprimere quel che prova se non attraverso la propria musica. “Wandering Stranger” è dunque un album di rara intensità, un lavoro sanguigno e crudo con il quale o si è in sintonia, o è meglio dedicarsi ad altro, perché il ragazzo ci presenta l’eredità della grande tradizione folk e blues d’America, quella dei trovatori solitari che vogliono far rivivere all’ascoltatore le proprie storie, i propri sentimenti, ma che non insisteranno di certo con cui è sordo nei confronti di tanta bellezza. Abbiamo dunque fra noi un nuovo talento che merita di essere conosciuto e apprezzato da tutti gli amanti del blues, del folk e della psichedelia, e a riprova del suo valore artistico, qualcosa vorrà pur dire se negli USA il suo disco è pubblicato da una storica etichetta outsider come la Fat Possum (in Europa invece l’album è stampato dall’inglese Sketchbook). Da scoprire.