Melt Banana – Cell-Scape

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Immaginate una flotta di cannoniere corazzate del 2055 sparare a martello sull’inerme seafront di Tokyo, in un tripudio di rumore e luci stroboscopiche. Al loro comando, fiera sul ponte una hysteric-chick di shibuya nella gloria del suo metro e cinquanta urla disturbata ordini sconnessi in una radio disturbata. Al suo fianco, la minuscola adorabile Rika Mm’ imbraccia un basso gigantesco come fosse il mitra di Ripley.
Questo è quanto aspetta chiunque abbia voglia, e il fegato, di cimentarsi con un concerto dei Melt Banana.
Ma c’è molto più di questo, non si tratta solo di iconografia. C’è l’ironia dissacrante e punk, l’attitudine hard core / metal di un batterista (Oshima Watchma ex “Satanic Hell Slaughter”) che picchia come un dannato (appunto), e un chitarrista che suona come una versione da day after di Tom Morello, riff sempre molti vari e ricercati. Si ha l’idea di assistere a qualcosa che era già nell’aria, ma che nessuno aveva ancora osato dire con tale chiarezza. Siccome è già stato detto tutto, eliminiamo i tempi morti del rock, raddoppiamo la velocità in un marasma calcolato e chirurgico dove un pezzo core diventa musica trance, Got the life dei Korn che suona a tre volte la sua velocità.
Arrivata al suo quinto lavoro, la band di Yasuko Onuki sembra aver eseguito un’evoluzione notevole dalle derive core dei primi due album verso un terreno più industrial e metal: un’evoluzione perfettamente riuscita che preserva originalità e follia, ma che guadagna in coesione e impatto sonoro, evoluzione di cui Cell Scape rappresenta il risultato ultimo.
Il disco si pone in un felice punto di incontro tra industrial, noise, core e art rock, e già dalla seconda traccia, che segue un’intro di programmatica adesione alla causa dell’elettronica (vissuta in realtà più come un mood per l’impianto dei brani che per un’effettiva presenza importante all’interno del disco), la vocina di Yasuko Onuki sguscia dolcemente zigzagando parole rapide tra il felicissimo riff noise di Ichiro Agata e la sessione ritmica che pompa una linea di basso a presa rapida su un impianto quasi nu metal alla velocità di un frullatore ben oliato, risultato: una crisi epilettica dei chemical brothers (e l’episodio più felice del disco).
Alla traccia successiva l’arduo compito di premere ancora di più sull’acceleratore, poi il beat si fa vicino ad una sorta di ballabilità rave per scivolare di nuovo nell’inferno del noise, ripetutamente.
Lost Parts Stinging Me So Cold ci riporta sul versante punk ma fatto esplodere dall’interno con la velocità del grind.
Chain-Shot to Have Some Fun riporta in mente a tratti i Ministry montando esplosioni industrial su una vertigine post rock, mentre Like a White Bat In a Box, Dead Matters Go On alleggerisce i toni scherzando sui generi e copia-incolla punk, funky, core, heavy metal, rage against the machine e post rock.
Interessante A Hunter in the Rain to Cut the Neck Up in the Present Stage con la sua chiusa che concede a una melodia dal retrogusto quasi deep bass-reggae da sound system. Ed è la melodia, con tutte le storture del caso, a farla da padrone in If It is the Deep Sea, I Can See You There l’ultimo episodio del disco prima che un’outro da dieci minuti (in buona parte inutili, se non per riposare i neuroni messi a dura prova dai 27 minuti che precedono) chiuda il lavoro sotto il segno di un’elettronica rarefatta.

Un disco difficile, di caos geniale e organizzato con precisione chirurgica e potenza notevoli, da consigliare solo a chi abbia dimestichezza con le sonorità più estreme. Anche perché ritengo che la dimensione ideale per l’ascolto di un gruppo di questa caratura sia dal vivo, dove il gusto per l’ironia e la performance-art tipico della band vengono fuori molto più facilmente che da un disco monolitico e crepato, che risulta ostico da digerire se ascoltato per intero e in sequenza (ma in ogni caso molto meno ‘indigesto’ del precedente Teeny Shiny!).
Probabilmente qualcuno avrà detto che il tentativo evolutivo di inseguire una maggiore forma canzone -sia nella lunghezza che nell’impianto delle esecuzioni- in parte rovina e depotenzia la dirompente follia incendiaria della band, che invece aveva trovato nelle “canzoni piccole” prodotte da Steve Albini (Scratch or Stitch, 1995) la sua cifra stilistica più riuscita e innovativa. Credo che si tratti comunque di un passo fondamentale, necessario e di grande interesse per una band a cui probabilmente gli stilemi e le etichette sono sempre stati (fortunatamente) molto stretti.