Temple Of The Dog – Temple Of The Dog

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La perdita di una persona cara nella maggior parte dei casi genera uno sconforto tale da annientare ogni forma di positività. E mentre dall’altra parte del mondo qualcuno piange la scomparsa del caro amico Andrew Wood (voce dei Mother Love Bone) io urlo dalla gioia perché finalmente ho tra le mani il risultato più straordinariamente bello che possa venir fuori da un lutto. Certo detto in questo modo può sembrare cinico ma pensate un attimo a quanta maestosità ha regalato alla musica la morte di una sola persona. Se quella dose di eroina non fosse stata tagliata male probabilmente non sarebbe mai esistito il capitolo Pearl Jam e ancor peggio non sarebbe mai nato il primo e in assoluto il migliore SuperGruppo. Chris Cornell, Matt Cameron, Jeff Ament e Stone Gossard, vogliono a tutti i costi esorcizzare quel vuoto interiore che li attanaglia e con l’aiuto di Mike McCready e Eddie Vedder compongono un vero e proprio requiem in musica, ricordando quell’irsuto “junkhead”. Cornell in tutta questa faccenda sembra essere il più colpito e grazie alla sua naturale capacità compositiva riesce a rievocare in ogni brano di questo album l’immagine di quel “Man Of Golden Words” che tanto amava parlare d’amore. Questo album fonde ammirevolmente le nascenti sonorità grunge più delicate con il pathos hard blues degli 60/70. Si fa solenne invocazione religiosa nell’imponente “Say Hello To Heaven” in cui Cornell e la sua ineguagliabile voce calda e vellutata sembrano rivolgersi a tutti coloro che hanno amato Andy, chiedendo loro di salutare il cielo, perché è lì che vive ora il “Golden Boy”. Con gli 11 minuti di “Reach Down” ci troviamo di fronte ad una vera e propria gara di virtuosismi tra voce e strumenti. L’atmosfera cambia sensibilmente, i toni sembrano più cupi e il blues si fa sempre più duro lasciandosi contaminare dall’imponente assolo di ben 5 minuti e mezzo di McCready. E dio che assolo! Quando arriva “Hunger Strike” la potenza dell’autentico grunge esplode in tutta la sua purezza e quella voce bassa e intensa dell’allora timido e sconosciuto Vedder amplifica la bellezza di forse uno dei brani più significativi per la gioventù di Seattle. Un appagamento continuo, un benessere che aumenta canzone dopo canzone, ascolto dopo ascolto, passando dal lento blues di “Call Me A Dog” all’accattivante e meno seria “Wooden Jesus”, dalla lenta e mesta “Times Of Trouble” alla martellante e sferzante “Your Saviour”. Grandioso in ogni suo anfratto, in ogni sfumatura, senza lasciare spazio ad alcuna disapprovazione o appunto. Questo album non è solo un tributo ad un amico perduto e non è servito solo a rievocare l’anima di Andy. Questo album è l’apoteosi della genialità creativa, della perfezione e dell’amore provenienti dall’estro di un gruppetto di grandi artisti poco più che ventenni.