Nine Horses – Snow Borne Sorrow

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Dietro il nome Nine Horses si nasconde l’estro delicato di David Sylvian, ancora sulle scene dopo circa 2 anni di distanza dal coraggioso “Blemish”, disco che ho faticato a comprendere ma che ha rivelato tutta la sua efficacia nella sua versione live che ho avuto modo di apprezzare nella data di Firenze dell’ultimo tour dell’ex Japan. Il progetto Nine Horses, se cosi è lecito definirlo, segna il ritorno di David Sylvian in territori a lui più consueti e tradizionali, dunque quel rock noir, decadente, profondo e jazzato che lo ha reso celebre. Ad accompagnarlo in questo nuovo capitolo della sua ormai lunga carriera troviamo vecchi compagni di avventura, tra cui il fedele fratello Steve Jansen che, oltre a fornire la solita elegante batteria e gli affascinanti beat elettronici, si misura anche come co-produttore in molti brani. “Snow borne sorrow”, questo il titolo dell’album, parte decisamente in quarta con “Wonderful World”, una suadente ballata tipicamente Sylvian, che richiama alla memoria i lidi materializzatisi in dischi come “Dead Bees on a cake”. Si continua con la maggiormente elettronica “Darkest Birds”, una sorta di crocevia tra il Sylvian classico e quello maggiormente sperimentale di “Blemish”, in una canzone che mostra affascinati affreschi di sax trattati ed una linea di voce che si mostra perfettamente adagiata. Altra collaborazione di lusso nella successiva “The banality of evil”: questa volta il nostro decide di avvalersi della preziosa mano di Burnt Friedman, estroso musicista contemporaneo, non nuovo a questo tipo di collaborazioni. Il brano vive di una felicissima ispirazione sia in chiave di composizione che in chiave di arrangiamento, ed è quest’ultima forse la fase in cui si sente maggiormente l’operato di Friedman. Delicato, quasi sussurrato eppur così coraggioso nell’utilizzo della strumentazione e dei suoni, che sembrano incastrarsi tra motivi jazz ed altri più in linea con certo rock contemporaneo, il brano si pone come uno dei più riusciti dell’intero lotto. Bella e profonda come sempre, la voce di Sylvian recita comunque un ruolo di primissimo piano in tutta l’opera, raggiungendo i suoi picchi di maggior espressività nella bellissima title track, altra perla dal sapore autunnale, con ancora moltissimi sax in evidenza ed ulteriormente impreziosita dal pianoforte di un altro vecchio amico, il grande Ryuichi Sakamoto, di cui abbiamo per altro apprezzato il suo ultimo lavoro “Chasm”. Dunque il grande David Sylvian riesce a fare centro con un disco importante, classico che non rinuncia a leggere virate in territori più sperimentali, come ovvio non così evidenti come nel precedente “Blemish”, ma pur presenti in adeguata misura. Una straordinaria conferma di un artista inarrivabile.