Arab Strap: The Live Romance

Sono 10 anni che gli Arab Strap esistono, 10 lunghi anni dal primissimo The week never stars around here fino all’ultimo The last Romance, il punto di svolta della loro carriera. E in questi 10 anni è la prima volta che arrivano a Roma. Un concerto che quindi si preannuncia già evento per tutti coloro che sono sia fans della band, anche appassionati di quel particolare songwriting elegante, quel modo di comporre tanto diretto quanto regale che li porta ad affiancarsi allo stesso pop di Belle e Sebastian o dei Divine comedy. Una predilezione per le acustiche e le melodie nostalgiche che, negli anni, influenzerà un po’ tutti, dai loro contemporanei Unbelievable truth e Catherine Wheel fino agli ultimi Doves, Turin Brakes e buona parte del New Acoustic Movement. Arrivo presto, prestissimo, e posso quindi considerarmi uno dei pochissimi fortunati ad aver assistito alla show di Franklin Delano, un nome che avevo sentito e risentito, di cui avevo anche qualche mp3 e non so per quale astrusa ragione abbinavo a un sound puramente B.R.M.C.. Immaginavo riffettoni rozzi, feedback che devastavano l’aria, un drumming in 4/4 monotono e un cantato scazzato. Mi sono trovato davanti una chitarrista indie in maglia a righe e trecce, un bassista funk sosia di Max Gazzè, un batterista dalla varia batteria (conchiglie, maracas, etc etc) e lui, quelli che molti credono essere Mr. Delano che in realtà è Mr. Iocca, italiano trapiantato a bologna dai lineamenti spigolosi. Basta la sua chitarra acustica che sfoggia come un Johnny Cash e mi ricordo subito la sua musica, un folk di stampo americano tipico di Will Oldham e Califone. Qualche secondo passato a rimpiangere di non aver saputo prima la notizia, e non aver quindi rispolverato Like a smoking gun in front of me e mi lascio perdere tra le note delle ballad, i feedback carichi di delay e reverb (ehy, allora un po’ mi ricordavo giusto) e un basso portante che se ne va a spasso sulla tastiera disegnando riff. Si respira aria di Arizona, orizzonti aperti, un po’ di blues, molta malinconia e una bella carica emotiva che sinceramente non mi aspettavo. Strappano applausi ed è un vero piacere vedere la gente che pian piano arriva, e silenziosamente si unisce a noi sotto il palco seguendo interessata. Un’ottima prova! Finiscono I FD e il palco viene invaso da 9 persone. I Broken social Scene? No, semplicemente si sgombera per il main act, e in meno di 5 minuti (neanche la più diligente e sbrigativa delle agenzie di pulizia è così lesta) il palco è “pronto all’uso”. Sulla sinistra ampio sfoggio di bassi e chitarre, tutte ordinatamente poste una accanto all’altra, sulla destra una tastiera e un ampli di basso che si rivelerà essere più alto del bassista stesso. Tutto pronto? Ancora no: manca la “benzina” della band; e prontamente un roadie sale sul palco seminando una decina di lattine di birra (e neanche sono bastate…) Ora si che è tutto a posto e salgono loro, Aidan Moffat e Malcom Middleton, insieme a batterista, tastierista e bassista…“e annamo!” mi veniva da dire vedendo scongiurato lo spettro del concerto intimo e acustico! E c’era davvero da dirlo e strillarlo perchè, per la prima volta, sembra che gli Arab Strap abbiano davvero voglia di suonare e divertirsi. Ora non so se avete presente gli Arab strap, sono un po’ 2 tristoni, malinconici, pessimisti, un po’ orsi dentro (vabbè, Aidan lo è anche fuori), perennemente scazzati. Li vedi sul palco che non vedono l’ora di attaccarsi a un boccale di birra, che stanno suonando perchè devono suonare, ma stasera qualcosa è diverso. Certo, c’è sempre quello sguardo severo e scrutatore di Moffat, che abbracciato al microfono alternava momenti ad occhi chiusi ad altri in cui ti faceva la radiografia con le pupille scure e lucenti. Austero e superiore come un genitore che ti sgrida quando hai ancora 5 anni (anzi, peggio, uno di quelli che ti sgrida perchè “hai ANCORA 5 anni, e per questo non ci possiamo fare una birra assieme. Muoviti a crescere!”), e c’è sempre l’aria dimessa da turnista non realizzato di Malcom, con la sua chitarrina a tracolla e testa china, espressione assente, sguardo un po’ spento, come a dire “no, non c’è neanche bisogno che mi concentro, è una vita che suono sto pezzo, anzi a dirla tutta l’ho scritto io”. Stupisce quindi come da due personaggi tanto scontrosi e restii possa scaturire una musica tanto toccante e carica di sentimenti, e Stink e Fucking little bastards (in versione loud) danno subito la scossa. Il sound è diverso, molto diverso. Un cambiamento che fa subito presa sui presenti che vivono lo show in maniera molto più rock di quel che si aspettavano. Rullate di batteria, overdrive, e addirittura il tastierista che riempie il sound con l’altra elettrica (una SG! Gli Arab Strap con una SG!) creano una bella botta che si impossessa dei brani proposti, che sono stati davvero molti, ripercorrendo tutti i lavori passati e soffermandosi su l’ultimo ancora nei negozi, che più degli altri si presta ad essere un album suonato in maniera energica e frizzante. Hanno iniziato presto, in tipico stile inglese, e hanno tirato dritto infilando un successo dopo l’altro, un brano dopo l’altro, mentre cresceva l’intensità del live e le lattine di birra vuote per terra. La loro buona vena nel live è stata confermata dalla prima encore dove, a un breve brano proposto in chiave acustica, ne sono seguiti altre sei con la band al completo, inaugurati da Moffat che, sotto l’incitamento del pubblico che si dilunga in un infinito “oooohhh”, si scola d’un fiato una lattina di birra, salvo poi realizzare che non è stata una bella idea (ma quel “nice Peroni” ha fatto intuire che ha comunque gradito). Perla conclusiva la cover di It’a a Heartcake, proposta ciondolando a destra e sinistra sul palco con fare ubriaco dallo stesso, mentre il solito , accennava qualche sbadiglio. Avrebbero suonato anche di più, ne sono convinto, probabilmente erano finite le birre… O forse Aidan Moffat e Malcom Middleton volevano brindare al perfetto concerto in compagnia degli altri della band. Cin cin!

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