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L’arte del puzzle inizia con i puzzle di legno tagliati a mano quando colui che li fabbrica comincia a porsi tutti i problemi che il giocatore dovrà risolvere, quando, invece di lasciare che il caso imbrogli le piste, vuole sostituirgli l’astuzia, la trappola, l’illusione: il modo premeditato, tutti gli elementi che figurano sull’immagine da ricostruire saranno il punto d’avvio di un’informazione ingannevole: lo spazio organizzato, coerente, strutturato, significante, del quadro verrà spezzettato non solo in elementi inerti, amorfi, poveri di significato e informazione, ma anche in elementi falsificati, portatori di false informazioni: due frammenti di cornicione che s’incastrino perfettamente mentre in realtà appartengono a due parti molto distanti del soffitto, vari pezzi tagliati quasi allo stesso modo appartenenti, gli uni a un arancio nano sulla mensola di un caminetto, gli altri al suo riflesso appena appannato in uno specchio, sono i classici esempi di trabocchetti tesi all’appassionato. Se ne potrà dedurre quella che è probabilmente la verità ultima del puzzle: malgrado le apparenze, non si tratta di un gioco solitario: ogni gesto che compie l’attore del puzzle, il suo autore lo ha compiuto prima di lui; ogni pezzo che prova e prova ancora, ogni suo brancolare, intuire, sperare, tutti i suoi scoramenti, sono stati già decisi, calcolati, studiati dall’altro*. E’ qui l’arte del romano Okapi: il frammento (e c’è davvero di tutto, da Cage alle musiche per bambini alle mucche ai cLOUDDEAD), il gioco, l’arte dell’illusione dedita ad un cut&paste frenetico e dadaista, grottesco e provocatore, tutto in un album dalle migliaia di piccole sfaccettature che lo rendono, nel suo piccolo gigantesco mondo, un capolavoro a parte. Da consigliare a più orecchie possibili.
(*estratto da “La vita: istruzioni per l’uso” di Georges Perec)