Il concerto dei Liars è stato uno spettacolo nello spettacolo.
L'ultima data del tour europeo del devastante trio ha riempito il Circolo degli Artisti fino all'orlo. Una folla non più di semplici curiosi, come fu per il precedente concerto, ma di veri e propri ammiratori, persone che hanno amato Drum's not dead e sanno che lo show proposto da Angus e soci è molto più che musica, note e melodia. E' un rigurgito primordiale e tribale che in poco più di un'ora e un quarto ha raso al suolo il pubblico, procurando un fischio alle orecchie stabile e duraturo nelle seguenti dodici ore.
Il palco è minimale: batterie, timpani e tamburi hanno preso l'ala destra dello stage mentre la sinistra, libera da ogni impiccio, è lasciata alle performance pseudo-dance di Angus Andrew. Le poche chitarre sono abbandonate latteralmente, mentre per terra corrono i cavi che portano i microfoni (presenti sui legni di ogni tamburo) al mixer gestito dalla stessa band. Salgono sul palco con naturalezza, noncuranti del boato, come se fosse normale per Julian Gross andare in giro con un vestito da donna di pailette dorate e strappato all'altezza del capezzolo sinistro; l'eccitazione dei presenti sembrano quasi non sentirla. Il concerto, come ci si aspettava, è stato delirante, angosciante, frastornante e incredibilmente affascinante.
Nessuna hit (se di hit si può parlare con i Liars) è stata proposta, neanche il singolo apripista dall'irriverente copertina di It fit when I was Kid. Solo un unico, claustrofobico tribalismo dato dalle percussioni, da un sound essenziale modulato e amplificato dai mixer e dagli effetti che lo modellavano, o meglio lo deformavano. Ed è così che il timpano tuona come un fulmine, i tom hanno un rombo da tuono e le bacchette che si schiaffeggiano tra loro sembrano fruste di metallo. In mezzo a queste esplosioni, Angus perde letteralmente la testa e, come invasato, si libera della sua tuta da metalmeccanico per sfoggiare un improbabile 'pigiama' a quadrati colorati. Non sono neanche passati 20 minuti e già è delirante di smorfie inquietanti, gronda sudore scintillante dai lunghi capelli e i suoi occhi brillano di una 'malvagità' alla Shining. Invasato com'è dalle sue stesse litanie (FLY! FLY! THE DEVIL'S IN YOUR EYES SHOOT! SHOOT!) penso sarebbe capace di scendere fra noi e farci a pezzi a mani nude, per sentire il rumore delle nostre ossa su quel tappeto apocalittico che Aaron Hempill crea nel suo angolino.
Difficile dire che pezzi hanno suonato, difficile dire cos'hanno suonato. Per usare un termine di moda si potrebbe definire un concerto Art-qualchecosadifico, ma la verità è che i Liars sono uno dei pochi, pochissimi veri gruppi davvero fuori dagli schemi che riesce a sperimentare liberamente sul palco, mostrando una capacità di mantenere un filo logico anche quando sembra che puntino alla semplice autodistruzione. Non c'è più musica, non più ritmo, solo suoni e sensazioni. Le poche chitarre utilizzate sono state dilaniate dai plettri che scorrevano tra le corde, grattavano e picchiavano sui pickup, facevano gridare lo strumento più con i lunghissimi e penetranti feedback da amplificatori che per le distorsioni granitiche. L'unica cosa 'studiata', il regalo del trio a chiusura del concerto dopo sessanta minuti di esplosioni, microfoni divelti, danze improvvisate e polli di gomma sui microfoni (!!!), è stato l'ultimo brano del bis, la cover di Territorial Pissing dei Nirvana.
Ora è difficile dire com'è Territorial rifatta dai Liars… Sappiate solo che se Cobain vi sembrava delirante, a confronto con Angus diventa il più quieto dei Damien Rice.