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Saranno passate un paio di settimane da quando ho deciso di scrivere una recensione per parlare di questo primo disco solista di Matt Elliott; scrivo solo adesso perché è veramente difficile presentare nella maniera giusta un artista simile e le sue canzoni. Precedente a quel capolavoro uscito l’anno scorso col nome di “Drinking songs” quest’album ne contiene già tutte le caratteristiche ma allo stesso tempo sono più frequenti gli innesti elettronici retaggio del passato come Third eye foundation (la titletrack ha un finale dove rimane la melodia malinconica accompagnata però da una base classicamente drum & bass). “The mess we made” è una forza della natura, un turbine di malinconia che divora l’ascoltatore e che lo trascina a raschiare il fondo dei suoi pensieri grazie a costruzioni musicali impeccabili nei giri di pianoforte, nelle rare batterie campionate, nei suoni ovattati e nelle poche ma strazianti armonie vocali; per fare un esempio la chitarra finale di “The dog beneath the skin” è come un albero che affonda le radici nel cuore dell’ascoltatore. Penso che nel panorama musicale odierno siano davvero pochi gli artisti di questo calibro, capaci di comporre una musica così personale e allo stesso tempo capace di fare breccia con estrema facilità nel cuore dell’ascoltatore. La ricetta di sensibilità, talento e personalità di Elliott ha veramente pochi eguali, le sue canzoni anche se principalmente tristi e riflessive sono accompagnate da un alone di splendore creativo che lo porta senza ombra di dubbio nel circolo di quegli artisti contemporanei che riescono a elevarsi nel cielo della musica del nuovo millennio.