Mudhoney: La macchina del tempo ritorno agli anni novanta…

Jennifer Gentle

autore: Francesco Sciarrone
Più che Roma 2006 sembra Seattle 94. Un tripudio di jeans strappati, magliette dei Pixies, praticamente un raduno dei nipoti di Kurt Cobain. No, non mi ci trovo un gran chè bene qua in mezzo. E anche i Mudhoney, a dirla tutta, non è che mi comunichino molto. Forse perché io ero tra quelli che preferivano (e preferisco, sparatemi addosso) (sooo) Sally (can wait) a Polly (wants a cracker..), perché pensavo che la cosa veramente interessante in quegli anni non avennisse nel paese delle stelle e strisce, o forse… boh… fatto sta che stasera mi sento un po’ come Michael Jordan guest star in un raduno del Ku Klux Klan. Comunque poco mi importa: Io sono qui per “l’orgoglio italiano” indie (oh yeah): i Jennifer Gentle che, di fresco ritorno da un tour spagnolo, si sono trovati ad aprire prima i graziosissimi Architecture in Helsinki, e ora quei Mostri Sacri dei Mudhoney. Sulla carta un concertone, nella realtà un mini set di 40 minuti proposto in orario improbabile. Non sono neanche le 21 e 30, infatti, che i cinque salgono sul palco con il loro psycho show ricco di melodie liquefatte pronte a sciogliersi nel Circolo. Visto il tempo ridotto, come confidato precedentemente da Alessio, puntano tutto su uno spettacolo elettrico dai toni lo-fi. La scaletta, di conseguenza, si basa più sul precedente Funny Creatures Lane che sul validissimo Valende, pescando solo i momenti più groovy da quest’ultimo, tra cui Universal Daughter (in apertura), il singolo primo estratto dall’album I Do Dream You e Nothing Make Sense. Una splendida occasione per risentire il gruppo di Padova in un live potente e compatto, psych come un concerto anni '60 e allo stesso tempo trascinante come un’apertura dei Mudhoney dovrebbe essere. È interessante vedere come i pezzi proposti, sebbene ardui da assimilare ad un primo ascolto nei loro tempi dispari, stacchi improvvisi e cambi repentini di tempo riescano non solo a catturare l’attenzione dei presenti, ma anche ad interessarli e incuriosirli. Bastano pochi brani per riuscire a creare quel contatto invisibile tra band e pubblico che permette ai musicisti di essere a loro agio, in più stimola il pubblico un ascolto che, in questo caso più che mai, è fuori dallo standard del gruppo principale. Marco detta legge con la sua sua jazzmaster, modulando i feedback e dilatando i flanger che sembrano trascinare giù sul fondo un pubblico spiazzato, che, piuttosto che aggrapparsi a quel riff ora a quello stacco di batteria, si lascia trasportare dalle ondate di suono. “Sembra la colonna sonora di Alice nel Paese delle Meraviglie”. Ho sentito questa frase, tra un applauso e l’altro, e penso che mai descrizione possa essere stata più azzeccata. I Jennifer Gentle sono sì Syd Barrettiani e psichedelici, ma soprattutto sono onirici, visionari e ludici. Pezzi come Logoweed conquistano subito per il loro tono scanzonato e travolgente, e I Do dream you si incolla addosso nei suoi stacchi di rullante cavalcanti Ma proprio quando pensi di conoscerli, di averli “inquadrati” ecco che loro ti piazzano lì un blues strascicato dai toni indie come Tiny holes, o una giocosa Nothing makes sense, irresistibile nei suoi “ih-Ahhh” e “u-h!”. O meglio ancora improvvisamente te li trovi prima tutti sul palco con richiami per uccelli in bocca, a creare una voliera musicale in sala, e poi a disintegrare tutto quello che pensavi ormai di aver capito su loro e la loro musica con una chiusura psichedelica da 10 minuti, un crescendo che avanza e si ingigantisce lento come uno tsunami che parte dall’orizzonte. Che altro si poteva volere di più? Una Wondermash, per esempio. Ma queste sono solo preferenze del sottoscritto…

Mudhoney

Serata d’altri tempi al Circolo degli Artisti. Arriva una delle band piu’ rappresentative del suono degli inzi anni ’90 che ha poi influenzato l’intera scena mondiale partendo da Seattle e arrivando nelle cantine e nei lettori cd di un’intera generazione, ma a giudicare dal pubblico presente oggi questa “ondata” sonora continua a influenzare anche i ventenni di adesso come se il tempo si fosse fermato, anche perché quel suono continua ad essere attuale. Spiccano infatti tanti ragazzi con la maglietta dei Nirvana che per una sera possono sentirsi come un giovane di Seattle negli anni ’90. Sul palco stasera pero’ non suona nessuna band blasonata di quel periodo ma i Mudhoney , dalla cui costola sono nati i Pearl Jam, che continuano imperterriti il loro percorso a discapito del tempo che passa. C’è un pezzo di storia della musica che calcherà il palco capitolino ed è una serata ghiotta per molti, giovani e nostalgici del genere. Ma non si tratta di un gruppo che celebra le antiche gesta ma di una formazione che ha appena pubblicato nuovo materiale e che di certo non si crogiola su se stessa.
Il concerto inizia abbastanza puntuale (anche troppo per quanto riguarda i Jennifer Gentle che sono di apertura). Pero’ i quattro di Seattle si fanno un po’ attendere e nell’attesa il locale si riempie. Io mi posiziono nella mia prima fila e sarà una scelta piuttosto rischiosa. Sotto al palco l’età media è sui vent’anni e scalpitano tutti, mentre piu’ distanti i nostalgici possono godere della musica senza rischiare di essere travolti. Il palco è un grondare di amplificazioni e spie.
Dopo vari richiami del pubblico sempre piu’ rumoroso salgono sul palco i quattro quarantenni: Mark Arm a voce e chitarra, Steve Turner alla chitarra , Guy Maddison al basso e Dan Peters alla batteria. Questa è l’ultima formazione di questa storica band che ad oggi ha appena pubblicato il loro album “Under A Billion Suns” , settimo capitolo del loro lungo percorso musicale. Il tempo che passa conta tanto in quanto ad aspetto fisico (niente piu’ camice di flanella o fango sulle scarpe) ma non conta niente quando si tratta di musica. Sin dalle prime note si puoì intuire che la serata sarà lunga, tirata e per niente rilassata. Partono tiratissime “Suck you dry”, “It is us” ed è delirio, le prime file aspettavano solo quello e si parte con il pogo e le urla e la security già si inizia a preoccupare e le mie braccia dopo un po’ si attaccano alla transenna inutilmente, perché tanto quell’esile barriera aveva già ceduto. “hard-on for war” chiude la prima parte tiratissima e subito dopo il cantante deve chiedere alla folla (forse con ironia) di stare rilassata perché la prossima canzone parla di “rilassamento e meditazione”….Parte “thouch me I’m sick” e il delirio diventa assoluto! Le persone singole non esistono piu’, le transenne reggono poco e la security diventa una transenna umana, il caldo arriva a livelli record e sulla mia testa piovono persone. Delirio allo stato puro. Continuano le bordate dei quattro sul palco con “sonic infusion” “ benetah the valley of the underdog” e “Here Comes Sickness” fanno di tutto per far infervorare ancora di piu’ le persone sotto al palco e le transenne cedono definitivamente travolgendo i ragazzi della sicurezza . I Mudhoney sul palco sembrano divertiti e tutt’altro che stupiti da questo mare umano impazzito che ogni volta trovano ai loro concerti. La prima parte finisce con “blindsposts” e finalmente si respira. Ma tutti sanno che non è finita, perché i bis sono d’obbligo. E infatti dopo vari richiami del pubblico riecco apparire il quartetto micidiale e dalla bocca di Mark Arm escono le fatidiche parole “c’è qualche cosa che vorreste sentire?” e su tutte le richieste che pero’ non possono essere tutte esaudite….altro delirio di folla, altre persone che volano e sudore infinito con “hate the police” su tutti, la chitarra di Mark Arm perde quasi subito una corda e dopo averla usata in modo piu’ che rumoroso anche in quella condizione prende a cantare senza e ad avvicinarsi al pubblico fino all’estrema richiesta della security di non “aizzare” ancora di piu’ il pogo avvicinandosi troppo.
Concerto finito e tutti piuttosto acciaccati (tranne coloro che saggiamente hanno scelto di stare dietro) ci si dilegua lentamente e per terra ci sono tracce della serata di vario tipo, da carte a lacci per capelli a schede di abbonamenti ….e tanto tanto meritato sudore! Pero’ gli anni ’90 devono essere stati veramente belli!

Foto di Daniele Bianchi – www.concertinalive.it