Earth – Hex; or Printing in the Infernal Method

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Dylan Carlson & Co. are back.
Dylan Carlson & Co. decidono di fare un disco spegnendo la distorsione dei loro amplificatori, e così ecco la versione folk minimale desertico apocalittico eccetera eccetera eccetera degli Earth. Di cantato non ce n’è l’ombra, tremoli riverberi delay e slide abbondano, la lentezza e la reiterazione sono il fil rouge di tutte le tracce (strano, no?), l’atmosfera è d i l a t a t a, echeggiano campanelli e vaghe sbavature drone, confortante presenza nel vuoto.
I giri armonici sono sghembi, sospesi, si cristallizzano lentamente dopo continue cicliche e circolari ripetizioni, in perfetta tradizione Earth. Cambia la forma ma non la sostanza alla base, la maniera di intendere la musica come riscoperta di ogni possibile sfaccettatura del suono, di un suono, ora spogliato anche della carica magmatica della saturazione valvolare. Contorni sfocati di desolate badlands americane, un’ambient ricercata che scorre mediamente neutrale con alcuni brani molto belli, specialmente nella seconda metà del disco: la tripletta “Lens of Unrectified Night” “An Inquest Concerning Teeth” e “Raiford (The Felon Wind)” difficilmente lascia indifferenti, e la conclusiva “Tethered to the Polestar” chiude il viaggio nel nulla con scontata ma rilassante bellezza dal sapore quasi folk.
Ce n’era bisogno? Risposta difficile, e forse domanda sbagliata. Di sicuro gli Earth dovevano cambiare, rinnovarsi, cercarsi una nuova veste espressiva per evitare il fattore riciclaggio. Momento di transizione? Rapida incursione in territori imprevisti? Un disco che resta un po’ in bilico, che non convince del tutto, sospeso.